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Rassegna Stampa, martedì 19 aprile 2016

di Redazione

IL SOLE 24 ORE martedì 19 aprile 2016
Deflazione e la moneta che piove dal cielo
Negli anni ’70, l’inflazione dovette superare il 10% o addirittura il 20% prima che molti Paesi si convincessero a cambiare l’assetto istituzionale della politica monetaria, scoprendo le banche centrali indipendenti e altri accorgimenti per tenere a bada l’inflazione. Ora in quasi tutti i Paesi avanzati la sfida è opposta: come far salire un’inflazione troppo bassa o negativa. Ma come negli anni ’70, alla base delle difficoltà incontrate dalla politica monetaria sta anche un assetto istituzionale non più adeguato.

Le tendenze deflazionistiche hanno più cause, alcune benigne, altre meno: il rallentamento dell’economia cinese che contribuisce a far scendere il prezzo delle materie prime; l’innovazione tecnologica che riduce i costi del commercio; l’invecchiamento della popolazione che aumenta i risparmi; l’eccesso di debito che scoraggia la spesa. Indipendentemente dalle cause, tuttavia, la ricetta per contrastare queste tendenze è una sola: aumentare la domanda aggregata. Ma con i tassi di interesse a zero o negativi, gli strumenti tradizionali di politica monetaria non funzionano più. E anche gli strumenti non-convenzionali a disposizione delle banche centrali sono quasi esauriti (con la parziale eccezione della Federal Reserve americana).

Eppure, dal punto di vista tecnico, uno strumento per aumentare la domanda aggregata esiste anche nella situazione attuale: è la cosiddetta “moneta distribuita con l’elicottero”, per usare le parole di Milton Friedman. Cioè la banca centrale stampa moneta e la distribuisce ai cittadini, non in cambio di qualcosa (titoli di stato o la promessa di una restituzione futura), ma in modo permanente e a fondo perduto.

Le obiezioni nei confronti di questo strumento non sono economiche, ma politiche. Dal punto di vista economico non c’è dubbio che sarebbe efficace. Una parte della moneta addizionale verrebbe risparmiata, ma certamente vi sarebbero cittadini che si affretterebbero a spenderla, facendo salire la domanda aggregata e i prezzi.

Anzi, la moneta con l’elicottero avrebbe minori contro-indicazioni rispetto ai tassi di interesse negativi (che mettono a repentaglio la solidità patrimoniale di assicurazioni e banche), e al Quantitative Easing (che alimenta bolle speculative e assunzione eccessiva di rischi).

La vera obiezione è che in questo modo la banca centrale si metterebbe a fare politica fiscale. Anziché intervenire sui mercati finanziari, la banca centrale si troverebbe a decidere entità e modalità di un trasferimento ai cittadini, senza alcuna legittimazione politica o istituzionale. Anche se non fosse proibito dalla legge, una banca centrale che effettuasse trasferimenti permanenti ai cittadini si troverebbe presto privata della sua indipendenza e della sua legittimità.

L’obiezione naturalmente è corretta. Ma non per questo l’idea va scartata. Il problema infatti non è lo strumento economico, ma l’attuale assetto istituzionale, che impedisce un coordinamento efficace tra politica monetaria e fiscale. Come hanno scritto Adair Turner (ex Presidente della Financial Service Authority inglese) e Ben Bernanke (ex Presidente della Federal Reserve), l’indipendenza e legittimità della banca centrale possono essere pienamente preservate, in questo modo: in circostanze eccezionali, la banca centrale può dichiarare che ha esaurito gli strumenti convenzionali, e che pertanto effettuerà un trasferimento permanente a favore del governo (o dei governi nell’area Euro). L’importo trasferito è scelto discrezionalmente dalla banca centrale, può essere diluito nel tempo, ed è motivato dalle circostanze economiche. Il governo (o i governi) non possono in alcun modo interferire con la decisione unilaterale della banca centrale, ma scelgono liberamente come disporre della somma trasferita: se e come distribuirla ai cittadini, se usarla per finanziare particolari voci di spesa, o per ritirare debito pubblico o semplicemente se accantonarla per il futuro. Naturalmente, se davvero le circostanze sono eccezionali, la pressione politica costringerebbe i governi a distribuire o spendere questa somma, raggiungendo così l’obiettivo di un effettivo coordinamento tra politica monetaria e fiscale.

Rispetto all’assetto attuale, non verrebbe stravolta la divisione dei compiti. La banca centrale resterebbe indipendente a avrebbe la responsabilità tecnica di decidere che è giunto il momento di fare ricorso a questo strumento eccezionale. E il governo avrebbe la responsabilità politica di scegliere se e come allocare le risorse a sua disposizione. Rispetto alle politiche seguite finora, tuttavia, l’efficacia sarebbe molto maggiore. Il QE infatti allenta il vincolo di bilancio del governo solo per la parte relativa agli interessi, e non costituisce un trasferimento permanente a favore dei governi. Nell’area Euro, in particolare, i governi rimangono soggetti ai vincoli sul debito pubblico. E anche se questi vincoli fossero allentati, in nome della “flessibilità”, l’attenzione dei mercati impedirebbe ai paesi più indebitati di spendere la liquidità immessa sui mercati dalla banca centrale, perché anche il debito comprato dalla Bce con il QE prima o poi andrà ripagato. Un trasferimento permanente, invece, non sarebbe soggetto a questi vincoli e sarebbe assai più efficace nel sostenere la domanda aggregata. Inoltre, la consapevolezza che politica monetaria e fiscale possono essere attivate con questo nuovo strumento contribuirebbe a ridare fiducia all’economia, rendendo con ciò meno necessario ricorrervi.

Per rendere trasparente e concreta questa modalità di coordinamento tra politica monetaria e fiscale, è necessario intervenire sull’assetto istituzionale della banca centrale, prevedendo esplicitamente questa possibilità di attuazione anche nei trattati europei. Il Trattato di Maastricht fu scritto quando i problemi economici erano ben diversi. Chi avrebbe immaginato allora che il tasso di interesse sui depositi presso la Bce sarebbe stato il -0.40%, così come il rendimento sui titoli di stato tedeschi a 5 anni? Non c’è una ragione valida per non cambiare quel Trattato, se non l’inerzia politica dell’Europa. Ma i costi dell’inerzia sono sempre più alti. © RIPRODUZIONE RISERVATA Guido Tabellini

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IL SOLE 24 ORE martedì 19 aprile 2016
Ultimi ritocchi su indennizzi e recupero crediti – Pronto il testo Mef-Giustizia, si attende il sì di Palazzo Chigi – Risarcimenti agli obbligazionisti, dote da 300 milioni
In arrivo – siamo agli ultimi ritocchi – il decreto-legge “salvabanche”, che contiene due inteventi di grande rilievo per il credito e i risparmiatori: il taglio dei tempi di recupero dei crediti e gli indennizzi per chi è stato coinvolto nelle recenti crisi bancarie.

– Bocciarelli e Negri –
Roma. Il ministro dell’economia Pier Carlo Padoan lo aveva annunciato da Washington. «All’inizio della settimana prossima saranno approvati decreti per ridurre i tempi del recupero crediti e per regolare i rimborsi». È quindi in arrivo, probabilmente domani, subito prima della partenza del premier Matteo Renzi per Città del Messico e New York, un decreto-legge a due stadi entrambi di grande rilievo per il settore del credito e per i risparmiatori. Il testo Mef-Giustizia è in attesa del via libera di Palazzo Chigi per approdare al Consiglio dei ministri.

Da un lato infatti vedrà la luce il necessario complemento, messo a punto dal governo, rispetto all’intervento che il sistema finanziario italiano ha costruito su base volontaria per garantire il buon esito degli aumenti di capitale in gestazione e per dare uno stimolo allo sviluppo di un mercato delle sofferenze. Come hanno spiegato nei giorni scorsi agli investitori d’oltreoceano Padoan e il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, il problema delle sofferenze delle aziende di credito italiane non va enfatizzato in quanto dai 200 miliardi di sofferenze lorde si scende a 80 miliardi di netto, se si considerano gli accantonamenti già iscritti a bilancio.

Inoltre, a fronte degli 80 miliardi ne esistono 80 di garanzie reali e altri 40 di garanzie personali. Oggi i tempi per escutere le garanzie in Italia, tuttavia, sono lunghi (si parla di sei-sette anni). Ebbene se, attraverso una riforma delle procedure fallimentari, si riuscisse ad accorciare di qualche anno la lunghezza delle procedure di recupero crediti, il valore di mercato dei crediti deteriorati risalirebbe rapidamente, tendendo a convergere verso quelli che sono gli attuali valori di libro delle sofferenze bancarie (più o meno il 40 per cento). È stato infatti calcolato che, nel complesso, per ogni anno di riduzione dei tempi di recupero delle garanzie, lo scarto tra prezzo di offerta e prezzo di domanda si ridurrebbe di circa il 10 per cento. Dunque il provvedimento in gestazione completerà sotto il profilo regolamentare l’azione del fondo Atlante, che avrà per oggetto, come si sa, prevalentemente la gestione delle sofferenze cartolarizzate di tipo “junior”.

L’azione del governo è quindi concentrata sullo smaltimento dei crediti deteriorati delle imprese bancarie. Ma, secondo quanto ha affermato ieri nel corso della sua audizione parlamentare il direttore generale dell’Abi, Giovanni Sabatini, «il processo è ancora in corso e dovrebbe essere accompagnato dalla rimozione di ulteriori ostacoli fiscali che tuttora possono essere di intralcio». Le norme già adottate dal governo tra cui gli interventi di natura fiscale sull’iscrizione in bilancio delle relative perdite «hanno creato le premesse per il superamento del fenomeno» delle sofferenze, ha osservato ieri Sabatini. Tuttavia l’Abi pone l’attenzione, in particolare, sulla normativa che riguarda le cartolarizzazioni, che «soffre del mancato ammodernamento sul piano tributario, lasciando spazio ad incertezze interpretative che potrebbero compromettere l’attivazione di nuove operazioni, oggi considerate nodali per le operazioni di pulizia dei bilanci».

Ma il provvedimento ormai prossimo al varo dovrebbe contenere anche una soluzione concreta dopo cinque mesi dal salvataggio di Banca Etruria, Banca Marche, CariFerrara e CariChieti, per gli indennizzi ai risparmiatori penalizzati dal decreto salva-banche di novembre e dovrebbe in primo luogo aumentare la cifra complessiva prevista inizialmente, garantendo a chi ha un reddito basso un pagamento automatico. Le risorse stanziate dovrebbero essere pari a circa 300 milioni, il triplo rispetto ai 100 previsti inizialmente. Una cifra in grado di garantire un ristoro alla maggior parte degli oltre 10.500 risparmiatori coinvolti. L’incremento della dotazione dovrebbe essere accompagnato da una procedura automatica per risarcire le persone con un reddito basso (con una soglia intorno ai 20mila euro). Per tutti gli altri invece c’è la possibilità di percorrere la strada dell’arbitrato gestito dall’Anac (l’authority anticorruzione), che esaminerà ogni singolo ricorso e deciderà se ci sono i presupposti per restituire i soldi. © RIPRODUZIONE RISERVATA Rossella Bocciarelli

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INDENNIZZI
I decreto legge in arrivo dovrebbe contenere una soluzione concreta per gli indennizzi ai risparmiatori penalizzati dal salvataggio di Banca Etruria, Banca Marche, CariFerrara e CariChieti. La cifra dovrebbe aumentare dai 100 milioni previsti inizialmente a circa 300 milioni. Risorse in grado di garantire un ristoro alla maggior parte degli oltre 10.500 investitori coinvolti. L’incremento della dotazione dovrebbe essere accompagnato da una procedura automatica per risarcire le persone con reddito basso (con una soglia intorno ai 20mila euro) . Per tutti gli altri invece c’è la possibilità dell’arbitrato gestito dall’Anac
RECUPERO CREDITI
L’azione del governo è concentrata sullo smaltimento dei crediti deteriorati delle banche. Con il provvedimento in gestazione si punta attraverso una riforma delle procedure fallimentari ad accorciare di qualche anno la lunghezza delle procedure di recupero credito. In questo modo il valore di mercato dei crediti deteriorati risalirebbe rapidamente. Si completa così sotto il profilo regolamentare l’azione del fondo Atlante, che avrà per oggetto prevalentemente la gestione delle sofferenze cartolarizzate di tipo “junior”
FALLIMENTO
Con un innesto alla Legge fallimentare potrebbe essere legittimanta la richiesta di fallimento anche da parte degli organismi societari di controllo. Potrebbe poi arrivare il pegno non possessorio con cui si dà al creditore la possibilità di estendere la garanzia a intere categorie di beni e anche di beni futuri senza impossessarsene.È possibile che la nuova forma favorisca i grandi creditori a scapito dei chirografari, estendendo la garanzia su una pluralità di beni mobili aziendali senza che il creditore se ne debba immediatamente impossessare
PROCESSO CIVILE
Dalla delega sulla riforma della procedura civile potrebbe poi transitare nel decreto legge la provvisoria esecutività del decreto ingiuntivo. Misura che avrebbe come obiettivo una maggiore incisività della procedura esecutiva con un automatismo nella concessione dell’esecuzione provvisoria del decreto ingiuntivo opposto sulla parte non contestata. In discussione l’istituzione di un Registro delle procedure di espropriazione forzata immobiliari, delle procedure di insolvenza, e degli strumenti di gestione delle crisi.

 

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In vista più tutele ai grandi creditori
Emersione della crisi d’impresa attraverso la legittimazione alla richiesta di fallimento anche da parte degli organismi societari di controllo. Che potranno anche sollecitare l’adozione di soluzioni concordate. Facilitazioni al recupero del credito con l’istituzione del pegno non possessorio e la provvisoria esecutività dei decreti ingiuntivi.

Sono alcune delle misure pro creditori che potrebbero confluire nel decreto legge.
A fare da bussola il pacchetto di norme che venne stralciato a febbraio dal Consiglio dei ministri e che adesso torna d’attualità, con qualche arricchimento, e una serie di disposizioni tratte dal disegno di legge sulla riforma della procedura civile. Quanto al primo elemento nel decreto potrebbe trovare posto un innesto alla Legge fallimentare per rendere possibile l’iniziativa per la dichiarazione di fallimento anche al collegio sindacale, al revisore o alla società di revisione, al consiglio di sorveglianza, e al comitato per il controllo della gestione. L’intervento sarebbe subordinato al verificarsi di perdite rilevanti per più di un esercizio o in caso di crisi finanziaria. Gli organi di controllo sono tenuti a sollecitare gli amministratori a intervenire e, se necessario, ad adottare misure idonee per la regolazione della crisi attraverso concordato. Potrebbe poi essere la volta buona per il pegno non possessorio, un istituto inedito per il nostro ordinamento, ma già da tempo praticato, per esempio, in Francia. Con questa forma di pegno si dà al creditore la possibilità di estendere la garanzia a intere categorie di beni e anche di beni futuri senza impossessarsene. Nel concreto, per esempio, è possibile che la nuova forma favorisca i grandi creditori (vedi banche) a scapito dei chirografari, estendendo la garanzia su una pluralità di beni mobili aziendali, caso tipico i macchinari, senza che il creditore se ne debba immediatamente impossessare. La disposizione dovrebbe poi anche specificare che tra i beni vanno compreso tutti quelli latamente ascrivibili all’impresa, comprese le partecipazioni in tutte le società di capitali, comprese le Srl.

Dovrebbe poi essere inserita la possibilità di assegnazione a favore di terzo, inserendo l’istituto dell’assegnazione per persona da nominare, consentendo alla banca di partecipare all’asta chiedendone, magari dopo alcuni assaggi senza esito all’asta pubblica, l’attribuzione a un soggetto da nominare purchè società controllata, collegata o fondo. Dalla delega sulla procedura civile potrebbe poi transitare nel decreto legge anche la provvisoria esecutività del decreto ingiuntivo. Misura che avrebbe come obiettivo una maggiore incisività della procedura esecutiva prevedendo un automatismo nella concessione dell’esecuzione provvisoria del decreto ingiuntivo opposto sulla parte non contestata. In discussione l’istituzione di un Registro delle procedure di espropriazione forzata immobiliari, delle procedure di insolvenza, e degli strumenti di gestione delle crisi con una sezione ad accesso pubblico e una invece riservata. Come pure in agenda c’è anche l’accesso degli organi delle procedure concorsuali alle informazioni contenute nelle banche dati ai fini di recupero o cessione dei crediti. © RIPRODUZIONE RISERVATA Giovanni Negri

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IL SOLE 24 ORE martedì 19 aprile 2016
Lo «spirito» di Atlante una lezione per l’Europa
La riunione al ministero dell’economia che lunedì 11 aprile ha posto le basi per il Fondo Atlante ricorda vagamente, nella ricostruzione fatta da un quotidiano inglese, quella che ebbe luogo nella notte tra il 2 e il 3 novembre 1907 nella casa di J.P. Morgan, a New York. Il fallimento di una banca stava contagiando l’intero sistema. Era necessario offrire una garanzia credibile che non ci sarebbero state altre chiusure di sportelli. La Fed non era ancora nata e solo le banche private potevano garantire liquidità adeguata. Queste però erano riluttanti a privarsi di risorse forse indispensabili alla loro stessa salvezza.
Morgan, che godeva nella comunità finanziaria di un indiscusso prestigio, convocò nella propria abitazione una quarantina di banchieri. Sotto gli occhi delle Madonne di Ghirlandaio, Perugino, Del Castagno, che adornavano la sua casa, Morgan spiegò ai colleghi che solo un’azione collettiva di dimensione adeguata avrebbe potuto salvare non solo la banca pericolante ma anche tutti loro. Secondo alcuni resoconti della nottata, a un certo punto Morgan avrebbe chiuso a chiave nella propria biblioteca i maggiori banchieri newyorkesi, minacciando di non lasciarli uscire prima che avessero raggiunto un accordo. Quando la mattina dopo la porta della biblioteca fu aperta, fu possibile annunciare che era stata messa a disposizione del sistema una riserva di liquidità adeguata. L’annuncio, credibile, mise fine al panico. Diede tempo per attuare un rafforzamento nel lungo termine dei bilanci e delle pratiche bancari.

La riunione dell’11 aprile in via XX settembre assomiglia un po’ a quella del 1907 per qualche elemento di colore: pare, sempre stando al quotidiano londinese, che non sia stato offerto nemmeno un bicchiere d’acqua ai partecipanti, forse per indurli a decidere in fretta, come fece Morgan con la sua chiave. Vi è qualche altra analogia tra i due episodi, ma le differenze sono tutte a favore di quello romano. Anzitutto perché oggi, rispetto al 1907, non è in atto una crisi bancaria con pericolo di contagio. Si tratta dunque di un’intesa volta a consentire il rafforzamento di tutto il sistema. Inoltre, pur trattandosi in entrambi i casi di accordo tra privati, il broker non è, questa volta, un banchiere ma lo stesso governo.

Il coinvolgimento del governo è essenziale nel garantire quel bene pubblico che è la stabilità finanziaria. Lo intuiva già nell’87 a.C. Cicerone, quando invitava il Senato a intervenire per fermare il panico creato tra i banchi del Foro da un improvviso ritiro dei depositi. Lo sapevano i veneziani il cui governo fondò il Banco della Piazza di Rialto per garantire la liquidità ai banchieri privati operanti a san Giacometto, alla base del ponte. Lo sapeva Hamilton che nel 1791 promosse, allo stesso scopo, la Prima Banca degli Stati Uniti, purtroppo chiusa dieci anni dopo dal Congresso. Nell’Ottocento, la mancanza di una banca centrale rese particolarmente fragile il sistema bancario statunitense, così come quello italiano. Fu proprio la crisi del 1907 a creare le condizioni politiche per la nascita della Riserva Federale. La crisi degli anni Trenta convinse l’opinione pubblica di quasi tutti i Paesi che un intervento pubblico era indispensabile per stabilizzare i sistemi bancari e finanziari. Le banche centrali furono in gran parte nazionalizzate. La crisi recente ha prodotto la reazione opposta, contro l’uso di denaro pubblico per “salvare” (bail-out) banche e banchieri visti, non sempre a torto, come incompetenti o addirittura disonesti. Questa reazione, comprensibile, rischia di rendere più difficile la gestione di crisi future. La “risoluzione” di banche insolventi interamente a carico di obbligazionisti e azionisti (il cosiddetto bail-in) può rafforzare il sistema in tempi normali, responsabilizzando i più immediati interessati alla salute della banca, ma rischia di diffondere panico e contagio in tempi difficili, soprattutto in assenza reti di sicurezza pubbliche dotate di risorse praticamente illimitate, mobilitabili in poco tempo, con regole flessibili capaci di fare fronte a circostanze oggi imprevedibili. Su questa lezione che viene dalla storia di tutte le crisi bisognerà che si riapra un dibattito per rivedere le regole europee in argomento.

Il Fondo Atlante coinvolge banchieri privati, primi interessati alla stabilità del sistema, in un ambizioso programma di sostegno ad aumenti di capitale, urgenti e necessari, e di alleggerimento dei bilanci delle banche da crediti d’incerta esigibilità ereditati da una crisi che ha colpito l’Italia più di altri Paesi. Se adeguatamente finanziato e accompagnato da misure che rendano più rapido e facile il collocamento sul mercato dei beni in mano alle banche a garanzia dei propri crediti, il Fondo renderà meno fragile il nostro sistema. Se riuscisse allo scopo, il Fondo potrebbe anche aiutare l’accelerazione del processo verso una maggiore condivisione europea dei rischi d’instabilità sistemica. Poiché una delle cause della riluttanza di molti governi ad accettare una maggiore condivisione dei rischi sta proprio nella debolezza, vera o percepita poco importa, del sistema bancario italiano, un suo rafforzamento è, a parere di molti a nord delle Alpi, una condizione probabilmente necessaria, anche se non sufficiente, al completamento dell’Unione Bancaria sulle basi di condivisione dei rischi e rapide procedure di intervento pubblico, accanto a quello dei privati, indispensabili alla stabilità del sistema bancario europeo.

gtoniolo@luiss.it – © RIPRODUZIONE RISERVATA Gianni Toniolo =============================
LA PAROLA CHIAVE
Il fondo Atlante

Il fondo Atlante sarà avviato formalmente nei prossimi giorni dopo l’accordo chiuso una settimana fa tra il ministero dell’Economia e i principali protagonisti del settore bancario. Con una dote fino a sei miliardi, sarà utilizzato per la ricapitalizzazione delle banche in crisi e la cartolarizzazione dei crediti in sofferenza. Verrà finanziato da gruppi assicurativi, fondazioni bancarie e istituti di credito. I principali sottoscrittori hanno già formalizzato le loro adesioni. All’operazione partecipa anche la Cassa depositi e prestiti.

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IL SOLE 24 ORE martedì 19 aprile 2016
Il fondo in campo per la garanzia sull’aumento
La prima mossa del fondo Atlante, il nuovo strumento di sistema per fronteggiare gli aumenti di capitale delle due popolari venete e per far partire il mercato delle sofferenze bancarie è arrivata ieri, ed era quella più scontata dal mercato. Il fondo, a cui hanno aderito ieri altre banche, subentrerà come garante dell’inoptato dell’aumento della Vicenza al posto di UniCredit. L’accordo è stato raggiunto ieri in mattinata tra la banca stessa e il gestore del Fondo la Sgr, Quaestio Management. L’accordo, precisa una nota, è condizionato all’ottenimento delle necessarie autorizzazioni e al raggiungimento degli obiettivi di raccolta minima. Nel frattempo ieri altri istituti hanno deciso di sottoscrivere il fondo. Lo ha stabilito la Popolare di Sondrio che sottoscriverà quote di Atlante per 50 milioni di euro. Anche Ubi Banca ha aderito al fondo per un importo fino a 200 milioni di euro. E in serata si sono aggiunte la Popolare di Bari (50 milioni) e la Fondazione Crt (50 milioni). Le adesioni di ieri si aggiungono a quelle di venerdì scorso di Bper (100 milioni); Bpm (100 milioni); Mps e Carige. La parte del Leone la faranno come è noto i due big del credito Intesa e UniCredit che sottoscriveranno cifre vicine al miliardo cui si aggiungono le quote di Cdp e Fondazioni con mezzo miliardo ciascuna. Intanto sono arrivate anche le prese di posizione dell’Abi. «Con i nuovi strumenti sul tavolo, dal fondo Atlante al recupero crediti, non abbiamo la bacchetta magica che fa sparire i crediti deteriorati dai bilanci delle banche, ma tutti insieme costituiscono un pacchetto che può dare un contributo a una forte riduzione delle sofferenze», ha dichiarato Giovanni Sabatini, direttore generale dell’Abi, nel corso di una audizione alle commissioni Bilancio. La macchina è quindi partita: le risorse private si stanno raccogliendo e saranno usate per mettere da subito in sicurezza i due prossimi aumenti della Vicenza e di Veneto Banca che da soli valgono oltre 2,7 miliardi. Poi si comincerà a lavorare sul fronte del mercato degli Npl che gravano sulle banche italiane. Un mercato in realtà mai decollato pur in un Paese in cui le sofferenze crescevano a ritmi esponenziali almeno dal 2010. Troppa la distanza e il divario di prezzo tra gli operatori specializzati che hanno tutto l’interesse a comprare al prezzo più basso possibile e le banche, che pur con tutte le rettifiche di valore effettuate negli anni, hanno in carico gli oltre 80 miliardi di sole sofferenze nette a un valore facciale tra 40 e 50. Il mercato non si è mai spinto oltre 20 e a dar man forte alla domanda dei fondi specializzati era arrivata a novembre, in occasione della risoluzione delle 4 banche locali, quella valutazione imposta a tavolino al 17% delle sofferenze che ha indotto il mercato a pensare che quello fosse il punto di incontro domanda-offerta. Un prezzo che avrebbe comportato perdite ulteriori nei bilanci delle banche in caso di cessione. Ora Atlante e i provvedimenti tanto attesi sul fronte fallimentare con la previsione di dimezzamento dei tempi di recupero dei crediti dovrebbero mettere le basi per creare quel mercato avvicinando i prezzi di offerta ai valori di carico delle banche. Tempi più brevi e un rendimento promesso agli investitori di Atlante del 6% anzichè del 12-15% chiesto dai fondi specializzati sono motori per spingere verso l’alto il valore di scambio delle sofferenze. Questo sulla carta, sul piano pratico si dovrà dimostrare. © RIPRODUZIONE RISERVATA Fabio Pavesi

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IL SOLE 24 ORE martedì 19 aprile 2016
I danni del passato e la necessità di ripartire
Come a voler ritardare il più possibile l’ardua sentenza, ieri il cda della Popolare di Vicenza si è riunito alla sera per fissare il prezzo dell’aumento di capitale.
Da cui, inesorabilmente, si evincerà anche il valore attuale – cioè prima che arrivino le risorse fresche – della banca: quattro soldi.
È l’eredità della gestione passata, che negli ultimi mesi si è progressivamente erosa mentre procedevano le verifiche del nuovo management, innescate dalla Bce. Ed è il dramma dei soci, la metà dei quali entrati dal 2010 a oggi: 50mila persone che hanno acquistato – spesso indotti, a giudicare dalle inchieste in corso – titoli della banca quando aveva superato la soglia dei 60 euro.

Di tutto quello oggi non rimane quasi nulla. Difficile sperare nel favore del mercato per un oggetto di questo tipo, per di più in un momento particolarmente difficile per il credito: se non ci fosse stato il paracadute di Atlante la débacle avrebbe avuto plastica rappresentazione in un aumento semideserto, e la conseguenza di mettere in seria difficoltà la seconda banca italiana, UniCredit.

La soluzione, in zona Cesarini come avviene sempre in Italia, per fortuna si è trovata. Ed è una buona notizia. Ma nel mondo delle banche il tempo è denaro (distrutto, risparmiato, creato), ed è così che la soluzione – se non sfruttata adeguatamente – può essere peggiore del male. La presenza di un compratore di ultima istanza non cancella, in un attimo, il problema di una banca che oggi non vale quasi niente e che deve proseguire con coraggio in un percorso di risanamento e rilancio che è solo all’inizio. Dopo essere riuscito nel mezzo miracolo di raccogliere miliardi in pochi giorni, il fondo Atlante dovrà dimostrarsi all’altezza del suo compito anche quando ci sarà da gestire, occuparsi di governace e – magari – di aggregazioni o di cessioni. Ne va della banca, del territorio che ancora oggi sostiene in misura determinante e della credibilità dello stesso progetto Atlante, vista l’ambizione di convincere il mercato che le banche italiane, insieme ai loro Npl, valgono più dei prezzi a cui vengono scambiate. .@marcoferrando77-© RIPRODUZIONE RISERVATA Marco Ferrando

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IL SOLE 24 ORE martedì 19 aprile 2016
Pop. Vicenza, parte l’aumento Il consiglio fissa il maxi-sconto – Accordo Atlante-UniCredit per la garanzia
Riunione fiume nella notte del cda di Popolare Vicenza per approvare la forchetta di prezzo a cui da domani verrà proposto sul mercato l’aumento da 1,75 miliardi, necessario per riportare il Common Equity Tier1 sopra la soglia richiesta da Bce del 10,25%. Si attende un valore molto basso, e l’operazione vedrà pressoché azzerato il peso degli azionisti pre-aumento. Sul fronte copertura interviene il fondo Atlante: ieri Quaestio Sgr ha sottoscritto un accordo con UniCredit che prevede il subentro nella garanzia.
A tarda sera, al termine di una riunione iniziata (in ritardo) alle 19, ieri il consiglio di amministrazione della Popolare di Vicenza ha approvato la forchetta di prezzo a cui da domani verrà proposto sul mercato l’aumento da 1,75 miliardi. Una cifra senz’altro bassa, che dopo un lungo tira e molla si è deciso di comunicare soltanto stamattina. E senz’altro molto lontana non solo dai 60 euro a cui erano approdate le azioni tra il 2010 e il 2015, ma anche dai 6,3 stabiliti nei mesi scorsi per il recesso (a tutti gli effetti teorico) e che certifica la difficoltà di una banca nel mezzo di un percorso di risanamento e rilancio tutt’altro che agevole. Per fortuna, a copertura dell’operazione c’è il fondo Atlante, che proprio ieri ha sottoscritto un accordo di subgaranzia con UniCredit (si veda l’altro articolo in pagina): secondo diverse stime raccolte sul mercato da Il Sole 24 Ore, ad oggi la quota di inoptato rischia di superare il 70%, ma la cifra è provvisoria e non è escluso che la presenza stessa del backstop di Atlante possa invogliare qualche investitore in più dei pochi individuati finora.

Il cda ha fissato la cifra sulla base delle attività di pre marketing condotte la settimana scorsa da UniCredit insieme ai joint coordinator dell’offerta, cioè Mediobanca, Jp Morgan, Deutsche Bank, Bnp Paribas. Come già detto, la forchetta sarà comunicata oggi, ma le stime in circolazione in questi giorni lasciano intendere una valorizzazione complessiva della banca compresa tra 1,1 e 1,6 miliardi: considerato che dal mercato arriveranno 1,75 miliardi, l’operazione vedrà pressoché azzerato il peso degli azionisti pre-aumento. Un motivo in più per capire la freddezza del mercato, anche se da domani il ceo Francesco Iorio, insieme agli advisor dell’aumento, ricorderà che dietro a prezzi bassi talvolta si possono nascondere grandi opportunità. E sempre domani a Milano è attesa una presentazione dell’operazione da parte dei vertici dell’istituto.

Per oggi da parte della Consob si prevede il via libera al prospetto della quotazione, con il nuovo titolo che dovrebbe essere scambiato a partire da martedì 3 maggio. Sempre che, si ragiona in ambienti di mercato, con l’aumento si avvicini la soglia minima di flottante richiesto per la quotazione. Importanti, come si diceva, i prossimi giorni: complice il varo del fondo Atlante e l’imminente nuova disciplina sul recupero del collaterale posto a garanzia dei crediti deteriorati allo studio del Governo, si auspica un ritorno di interesse degli investitori sulle banche italiane. Si vedrà se su tutte o soltanto su alcune.

Per quanto riguarda in particolare la componente retail, e per evitare il ripetersi delle condotte del passato, su richiesta esplicita della Consob la banca ha predisposto particolari «modalità di valutazione dell’adeguatezza o dell’appropriatezza delle operazioni di sottoscrizione delle azioni offerte alla clientela», ma anche «presidi sulle operazioni volti ad evitare l’abbinamento tra la sottoscrizione di azioni e l’erogazione di finanziamenti», nonché il «rafforzamento delle modalità informative per l’operazione di aumento di capitale».

Con gli 1,75 miliardi in cassa, Popolare di Vicenza potrà riportare il proprio Common Equity Tier1 al di sopra della soglia minima richiesta da Bce del 10,25%, ponendo fine a una deroga in essere dall’estate scorsa, e procedere in una messa in sicurezza che non potrà prescindere dalla cessione dei crediti deteriorati: al 31 dicembre su 29,2 miliardi di impieghi lordi, il 31,6% risultava deteriorato e il 15,9% classificato come sofferenza, con coverage rispettivamente pari al 42,4% e al 59,3%. A giugno, archiviato l’aumento, si terrà un’assemblea per il rinnovo degli organi scaduti ad aprile ma attualmente in prorogatio proprio per consentire di portare a termine l’aumento: un nuovo banco di prova interessante per il fondo Atlante, che potrebbe essere chiamato alla prima scelta di rilievo anche in fatto di governance. © RIPRODUZIONE RISERVATA Marco Ferrando Return

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IL SOLE 24 ORE martedì 19 aprile 2016
Assicurazioni. Azienda pronta ad applicare l’intesa del 2014 se i sindacati rifiuteranno la proposta – Contratto Unipol, ultima chiamata – Dopo la rottura a un passo dalla firma il gruppo rilancia con una lettera
Che la trattativa per l’armonizzazione degli integrativi Unipol e Fonsai sarebbe stata complicata, Giuseppe Santella, direttore generale risorse umane e organizzazione del gruppo Unipol non ha nemmeno faticato ad immaginarselo quando, qualche anno fa, c’è stata la fusione. La distanza tra l’uno e l’altro è forte e la ripartizione dell’integrativo Unipol che ha previsioni più basse e di quello Fonsai che ha previsioni più alte è 50 e 50 tra i 10mila dipendenti interessati. Tutte condizioni che creano attrito. Venerdì scorso, però, il manager dopo aver messo sul piatto il massimo della forchetta che dal punto di vista aziendale si poteva offrire, come ha detto ieri al consiglio nazionale della Uilca a Milano, si sarebbe aspettato di andare, finalmente, verso la chiusura. Ai sindacati il gruppo ha detto che ci sono delle compatibilità economiche che non possono essere superate, l’azienda fa buoni risultati ma non è detto che sia così anche nei prossimi anni, il ramo vita rende poco, i premi calano, il costo del lavoro cresce. Alla luce di tutto questo, dopo ben 29 incontri l’accordo è saltato. Per l’azienda i tempi non possono essere infiniti e, tra l’altro non va dimenticato che l’accordo del 29 dicembre del 2014 – firmato solo dai confederali e non dagli autonomi della Fna e dello Snfia – prevedeva che se entro il 31 marzo del 2016 non fosse stato trovato un accordo tra le parti sull’armonizzazione, l’azienda avrebbe applicato a tutti i dipendenti l’integrativo Unipol. Entro il 31 marzo però le parti non sono riuscite a raggiungere la sintesi auspicata. L’azienda ha però concesso una proroga di 15 giorni. Al 15 aprile l’accordo è saltato ma l’azienda invece di applicare tout court l’integrativo Unipol a tutti ha deciso di fare un ultimissimo tentativo, inviando una lettera alle organizzazioni per ribadire la sua proposta.

Una proposta che per qualcuno è largamente migliorativa, come osserva un funzionario Unipol. Ma che per qualcun altro sarebbe peggiorativa, come potrebbe dire chi ha il contratto Fonsai. In realtà entrando nel merito l’azienda fa uno sforzo pari a 22,5 milioni di euro, porta per tutti i 10mila lavoratori interessati la copertura sanitaria e quella previdenziale ai valori massimi presenti in azienda. Propone un orario unico per tutti perché in un’azienda non possono esserci decine di orari diversi, soprattutto se l’azienda deve fare i conti con agenzie aperte tutti i giorni, clienti che ormai si fanno le polizze anche di notte, una concorrenza fortissima e un pubblico di persone molto informate e selettive.

Entrando nel merito della parte economica la proposta aziendale prevede, tra l’altro, l’erogazione di un unico premio aziendale fisso con un incremento superiore ai 600 euro riferito al personale di quarto livello, l’erogazione di un assegno ad personam non assorbibile per il personale cui si applica il Cia Fonsai a salvaguardia dei trattamenti economici precedenti, l’applicazione dell’integrazione economica all’indennità di carica a tutti i funzionari di gruppo e conseguente incremento di circa il 14% rispetto agli attuali importi, l’erogazione di una una tantum per il personale cui si applica il cia Fonsai pari a 500 euro lordi riferita al quarto livello per il periodo di vacanza contrattuale 2014-2015, l’erogazione di un premio aziendale variabile a luglio 2016 pari a 1.400 euro lordi riferito al quarto livello con la possibilità di trasformazione in welfare (in questo caso pari a 1.775 euro), l’allineamento dei buoni pasto. La proposta dell’azienda, così com’è, ha raggiunto il massimo della forchetta e adesso sta al sindacato trovare il modo per raggiungere un accordo su questa proposta migliorativa per non applicare l’integrativo Unipol a tutti. Perché questo è quello che prevede l’accordo sindacale firmato dai confederali il 29 dicembre del 2014. © RIPRODUZIONE RISERVATA Cristina Casadei

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IL SOLE 24 ORE martedì 19 aprile 2016
Il bail-in funziona se il sistema è solido
Dal 2013 in poi, il modo di gestire le crisi bancarie è cambiato radicalmente. Prima di quella data, i problemi delle banche normalmente venivano risolti con l’aiuto del sostegno pubblico. Questo sostegno poteva assumere molte forme: ricapitalizzazioni, misure a fronte di attività deteriorate o altre forme di supporto come le garanzie pubbliche. In questi processi, i creditori delle banche, compresi i detentori di titoli di debito subordinato, non venivano quasi toccati.

Lo scenario è stato rivoluzionato nell’estate del 2013, con le nuove regole sulla ripartizione degli oneri nel quadro degli aiuti di Stato. Le regole introdotte nel 2013 hanno rappresentato una trasformazione radicale nella gestione e risoluzione delle crisi bancarie. Alla base dell’iniziativa c’era innanzitutto la necessità di ridurre i salvataggi pubblici (bail-out) e passare a un sistema fondato su salvataggi a carico del settore privato (bail-in). Il nuovo concetto ha costituito anche uno dei pilastri principali delle successive norme sulla risoluzione delle crisi bancarie, introdotte con la direttiva sul risanamento e la risoluzione delle banche, approvata nel 2014 e implementata lo scorso gennaio. Questa direttiva ha esteso ulteriormente il ventaglio delle passività assoggettabili a bail-in, includendo per esempio, almeno in teoria, il debito privilegiato e perfino i grandi depositi.
I recenti avvenimenti in Italia mettono in risalto le complicazioni legate all’applicazione del bail-in per quanto riguarda la tutela dei consumatori e la necessità di un’adeguata commercializzazione di questi strumenti.
A questo proposito, sorgono due interrogativi distinti: la vendita agli investitori al dettaglio di titoli assoggettabili a bail-in dovrebbe essere vietata interamente? Oppure dovrebbe essere consentita, e in questo caso in quali forme? A nostro parere, entrambe le domande sono leggermente malposte, perché l’applicazione del bail-in non può conseguire simultaneamente l’obbiettivo della stabilità finanziaria e quello della tutela dei consumatori.

Nell’ottica della stabilità finanziaria, è bene che i titoli di debito subordinato siano detenuti anche dagli investitori al dettaglio, e dunque non è il caso di vietarne la vendita. Inversamente, se si adotta l’ottica della tutela dei consumatori, sarebbe meglio che a detenerli fossero solo gli investitori professionali. Già questo aspetto mette in evidenza l’importante contraddizione implicita nella costruzione del principio del bail-in, che forse sarebbe necessario modificare radicalmente.

Tralasciando questo aspetto, e dando per scontato che il sistema del bail-in rimarrà in vigore, la soluzione migliore potrebbe essere che questi titoli siano detenuti in parte da investitori istituzionali (possibilmente non banche) e in parte da investitori al dettaglio. In questo modo si garantirebbe una certa tutela sotto il profilo della stabilità finanziaria e si limiterebbe il problema della tutela dei consumatori.

Gli investitori al dettaglio dovrebbero essere chiaramente informati dei rischi che si assumono e delle conseguenze. Se si riuscisse a far questo, affrontare i rischi impliciti nel debito subordinato diventerebbe a quel punto una loro decisione. Naturalmente non è un obbiettivo facile da conseguire: per arrivarci, bisogna prima di tutto risolvere il tipico conflitto di interessi fra banche e clienti nella scelta degli investimenti. In altre parole, bisogna mettere fine alla cattiva abitudine di molti istituti di credito di collocare presso la clientela le obbligazioni della banca stessa, per facilitare il finanziamento della banca e magari incrementare le commissioni. In secondo luogo, è necessario espandere notevolmente l’alfabetizzazione finanziaria, sia fra gli impiegati di banca che fra gli investitori: a tale scopo serve un importante processo di educazione finanziaria, e magari la creazione di autorità preposte alla tutela dei consumatori.

Un’altra possibilità sarebbe consentire agli investitori al dettaglio di detenere titoli di debito subordinato solo in via indiretta, attraverso fondi comuni di investimento. Questa soluzione avrebbe il vantaggio di consentire agli investitori al dettaglio di avere un portafoglio più diversificato rispetto all’ipotesi di detenzione diretta dei titoli. Anche in questo caso, tuttavia, servirebbe un sostanzioso investimento in educazione finanziaria, per mettere gli investitori nelle condizioni di sapere in che tipo di titoli investe il fondo e conoscere le variazioni del portafoglio nel tempo.

Per applicare in modo credibile il sistema del bail-in, introdurre metodi adeguati di commercializzazione dei titoli di debito subordinato non è sufficiente, serve molto di più: bisogna operare un cambiamento radicale nella governance delle banche, nel loro sistema di controllo interno e gestione del rischio, per arrivare ad avere una gestione delle banche più prudente e di conseguenza, in ultimi analisi, minori perdite per gli investitori e il sistema in generale.

Tutto questo ci conduce all’ultimo punto: abbiamo affermato sopra che nell’ottica della stabilità finanziaria è auspicabile che il debito subordinato sia detenuto anche dagli investitori al dettaglio. Pur essendo in contraddizione con le esigenze di tutela del consumatore, questo elemento rende il sistema meno esposto a shock e meccanismi di amplificazione, perché gli investitori professionali sono più reattivi a qualsiasi segnale sulle prospettive di una banca in cui hanno investito. Inoltre, soprattutto quando il debito subordinato è nelle mani di banche o istituzioni analoghe, c’è un rischio di amplificazione degli shock, e dunque di contagio e rischio sistemico.

In ogni caso, gli investitori professionali hanno una migliore conoscenza del mercato e sono quindi meglio in grado di acquisire le informazioni necessarie per imporre un’efficace disciplina di mercato alle banche e ai loro atteggiamenti verso il rischio. In quest’ottica, è evidente che i titoli di debito subordinato dovrebbero essere nelle mani degli investitori professionali, e non di quelli al dettaglio. Come conciliare questo aspetto con i timori per il rischio sistemico? Ci sono molti modi per riuscirci. Una possibilità è quella di rafforzare ulteriormente la capacità di resistenza delle banche attraverso requisiti patrimoniali più alti o strumenti normativi simili. Un’altra possibilità è introdurre meccanismi di protezione adeguati, per esempio misure di sostegno di ultima istanza garantite dalle finanze pubbliche. La teoria insegna che finché le banche sono soggette unicamente al rischio di liquidità introdurre meccanismi di protezione, sotto forma di garanzie pubbliche o iniezioni di denaro, può essere molto efficace per arrestare il panico e ripristinare la fiducia senza imporre oneri alle casse dello Stato. Non significa tornare al sistema dei bail-out, significa costruire un sistema finanziario resistente, capace di assorbire gli shock e di costruire e mantenere la fiducia degli investitori. Non è un compito facile, ma probabilmente è più importante che interrogarsi specificamente sulla commerciabilità del bail-in. Se l’Europa vuole costruire un sistema bancario solido, in cui gli investitori professionali esercitano disciplina di mercato sotto la minaccia (credibile) del bail-in e gli investitori al dettaglio hanno fiducia che i loro risparmi non verranno messi a rischio senza che loro siano consapevoli che tale possibilità esiste, dovrà intraprendere una trasformazione più drastica e pensare finalmente a costruire un’economia più integrata, dove le perdite potenziali vengano messe in comune e il sostegno di ultima istanza garantito dalle finanze pubbliche sia rafforzato.

Con la creazione dell’unione bancaria, questo ora è possibile. Ma le limitate dimensioni del neonato Fondo di risoluzione indicano che la volontà politica ancora non c’è. Senza di essa, il bail- in probabilmente rimarrà un concetto teorico, o applicato unicamente agli investitori al dettaglio delle piccole banche. Il caso italiano è un buon esempio. (Traduzione di Fabio Galimberti) © RIPRODUZIONE RISERVATA Elena Carletti e Donato Masciandaro

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IL SOLE 24 ORE martedì 19 aprile 2016
Le ragioni del fondo Atlante
Il panico bancario del 1907 negli Stati Uniti fu bloccato dal ricchissimo J. P. Morgan (fondatore dell’omonima banca) che sostenne – insieme ad un consorzio di investitori – le quotazioni delle principali banche dell’epoca. In cambio, ottenne una speciale esenzione dalle regole antitrust per consolidare ulteriormente il suo potere di mercato nel settore dell’acciaio. La reazione popolare a quest’abuso di posizione dominante fu tale che nel 1913 gli Stati Uniti crearono la Federal Reserve Bank, che sarebbe dovuta intervenire per alleviare le situazioni di panico, evitando che ad approfittarsene fossero i soliti noti.
È utile ricordare questo episodio storico nel momento in cui l’establishment italiano sta creando il fondo Atlante, per salvare le nostre banche. Innanzitutto, per la similitudine istituzionale. J. P. Morgan fu “costretto” ad agire dall’assenza di una banca centrale che fornisse credito di ultima istanza. In Europa una banca centrale esiste. Ma non esiste la certezza che possa spendersi fino in fondo per salvare le banche italiane, dati i vincoli politici. In secondo luogo, per il carattere dei protagonisti: J.P. Morgan, vecchio ma potentissimo, assomiglia molto a Giuseppe Guzzetti, l’attuale patron della Cariplo. Poi per la natura semi–coercitiva del consorzio. Si narra che J. P. Morgan chiuse a chiave nel suo studio tutti i principali membri del consorzio fino a quando non avessero firmato. Non si ha notizia che Guzzetti abbia cercato di fare altrettanto, ma dietro di lui ci sono le nostre istituzioni che fanno capire si tratti di un’offerta che non si può rifiutare. Ma l’analogia più importante tra l’Italia di oggi e il panico del 1907 è la seguente: in entrambi i casi un intervento era assolutamente necessario, il motivo del contendere è il modo in cui è stato congegnato.

Che le due popolari venete richiedessero un intervento non era un segreto: lo andavamo scrivendo da mesi su questo giornale. La cosa sorprendente non è che l’intervento sia avvenuto, ma che sia avvenuto così tardi, solo pochi giorni prima dell’aumento di capitale di Banca Popolare di Vicenza che, se inoptato, avrebbe potuto mettere in difficoltà anche Unicredit. Le due principali banche (Unicredit e Intesa) investono nel fondo Atlante meno di quello che, con tutta probabilità, avrebbero dovuto investire in Bpv e Veneto Banca. Ma questo investimento è garantito, rassicurando il mercato sulla riuscita delle due operazioni.

Un ulteriore vantaggio è che Unicredit e Intesa non dovranno aggiustare continuamente al valore di mercato la loro partecipazione. Se le azioni di Bpv e Veneto Banca dovessero crollare, le due principali banche italiane non dovrebbero contabilizzare subito le perdite, con conseguenze negative sul capitale di vigilanza.

Ma il vero motivo sottostante al fondo Atlante sono i crediti inesigibili: i cosiddetti non performing loan (npl). A lungo le banche avevano sperato di trasferire il peso di questi npl in una grande bad bank nazionale. E in un primo momento si e pensato di dare ricorso a una clausola di garanzia dello stato ma questo, a causa delle regole europee non è stato possibile.

A novembre, nel fallimento delle quattro banche regionali, il valore dei loro npl è stato fissato a 17,5 centesimi per ogni euro di valore nominale, un prezzo che sembra eccessivamente basso. Se applicato a tutto il sistema bancario, questa valutazione avrebbe effetti molto negativi sul capitale di vigilanza di tutte le principali banche. Il fondo Atlante evita che queste valutazioni diventino “di mercato” e permette alle banche di non svendere ad altri i propri npl.

Ma il fondo Atlante permette anche alle banche di vendere i propri crediti più dubbi – a un prezzo superiore a quello attuale di mercato – ad assicurazioni e fondi pensione, rischiando di incidere sul valore dei portafogli dei loro assicurati e pensionati. Per le istituzioni, dal governo alla Banca d’Italia, (che partecipano tramite la Cdp) il vantaggio è di restituire valore agli npl e di evitare lunghe e destabilizzanti inchieste sulle eventuali responsabilità degli errori passati. Più che Atlante, il personaggio mitologico che sosteneva il mondo, il fondo dovrebbe chiamarsi Lete, il fiume dell’oblio che cancella tutti i ricordi. © RIPRODUZIONE RISERVATA Luigi Zingales

 

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IL SOLE 24 ORE martedì 19 aprile 2016
Il mercato crede a Unipol-UnipolSai
Il titolo Unipol ha chiuso le contrattazioni di ieri in rialzo del 5,36% a 3,77 euro. Il mercato ha sostenuto le quotazioni della holding spinto dalla “suggestione” che a stretto giro possa essere messo nero su bianco un piano per il taglio della catena di controllo con l’integrazione di UnipolSai nella casa madre. Una suggestione nata sulla scorta di indizi ben precisi. Il primo chiama in causa le ultime mosse di Unipol Gruppo sulla compagnia. Da recenti internal dealing risulta infatti che la società ha acquistato circa 56,5 milioni di titoli di UnipolSai mettendo sul piatto poco più di 107 milioni di euro. Le azioni sono state rilevate nei mesi di febbraio e marzo e hanno permesso alla società di arrotondare la partecipazione di circa un 2% che ha portato Unipol a detenere quasi il 63% del gruppo assicurativo. Un’operazione che Piazza Affari ha letto come una sorta di mossa anti-diluitiva in vista di una possibile aggregazione.
La fusione, come è noto, non sembra più essere un tabù a Bologna. Tanto che qualche tempo il ceo Carlo Cimbri ha aperto all’ipotesi di un riassetto. Nel farlo, però, il manager aveva anche sottolineato che il dossier sarebbe diventato d’attualità solo nel momento in cui Unipol fosse riuscita a cedere Unipol Banca. Tema, quest’ultimo, attorno al quale Piazza Affari ha speculato parecchio negli ultimi giorni. E ciò per diverse ragioni.

La prima è legata al fatto che, come riportato da Il Sole 24 Ore del 10 aprile, Unipol avrebbe in programma di entrare in Bper con una quota compresa tra il 2 e il 5% del capitale. Un progetto che, è convinto il mercato, potrebbe agevolare la sistemazione dell’asset bancario. In merito ai possibili accordi con Unipol è intervenuto lo stesso amministratore delegato della Popolare dell’Emilia Romagna, Alessandro Vandelli, che all’assembla di approvazione del bilancio tenuta sabato 16 aprile ha dichiarato: «È normale che ci siano contatti, con Unipol siamo soci da oltre sette anni nell’ambito assicurativo in Arca Vita, per cui siamo pronti a una riflessione in proposito».

Gli operatori, dunque, si sono subito chiesti se il confronto verterà esclusivamente sulla partnership di bancassicurazione oppure se chiamerà in causa l’asset più caldo, ossia Unipol Banca: «L’intesa potrebbe aiutare Unipol a trovare una soluzione per l’istituto aprendo poi le porte a un eventuale collasso della catena UnipolSai-Unipol», ha commentato a Radiocor-Plus un analista.

Di qui, la decisione degli operatori di posizionarsi a monte della catena di controllo spingendo in alto di oltre il 5% le quotazioni della capogruppo: la controllata UnipolSai ha chiuso invece in progresso dell’1,59% a 2,04 euro.

Una performance, peraltro, registrata in una seduta assai particolare per il gruppo assicurativo. La stampa ha dato conto dell’intenzione della compagnia di chiedere il ritiro del rating a Standard & Poor’s. Le voci hanno poi trovato conferma nella serata di ieri. Dopo Generali, dunque, anche il gruppo di Bologna ha deciso di non affidarsi più per il giudizio del proprio profilo di credito alla principale agenzia su piazza. Lo ha fatto, come spiega una nota, come esito di «un’attenta analisi» che si è basata principalmente «sulla non condivisibilità per l’acritico e rigido utilizzo di modelli valutativi e per l’applicazione meccanica di alcuni criteri metodologici come la limitazione del rating di UnipolSai Assicurazioni al livello del rating sovrano». Di fatto, è quel che si percepisce, tali approcci avrebbero impedito che i risultati conseguiti dal gruppo Unipol nel corso del piano industriale 2013 – 2015 potessero essere riflessi nella valutazione. Unipol Gruppo e UnipolSai continueranno ad essere valutati dalle agenzie di rating Fitch, Moody’s, Am Best e Dagong Europe.

S&P, dal canto suo, ha attribuito a UnipolSai un giudizio BBB- e a Unipol BB. Valutazione poi ritirata. Il rating del gruppo assicurativo, come evidente, è allineato a quello dell’Italia. Lo è, ritiene l’agenzia, per una serie di motivi. Prima di tutto perché l’80% degli asset gestiti dalla società sono italiani. Ma non solo. S&P ha valutato “soddisfacenti” i risultati raggiunti dall’azienda nel 2015 ma non li considera particolarmente brillanti, complice un Roe di poco inferiore al 10%. La redditività, è il pensiero dell’agenzia, è dunque buona ma non straordinaria. Inoltre S&P continua a ritenere che il portafoglio ex FondiariaSai, nonostante i progressi, sia ancora sottoriservato, e che l’azienda, per prassi, distribuisca cedole particolarmente rotonde. Il che non andrebbe a beneficio del capitale. © RIPRODUZIONE RISERVATA Laura Galvagni

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MF-MILANO FINANZA martedì 19 aprile 2016

E i soci forti sono pronti per il patto

di Luca Gualtieri
Mentre sotto la guida dell’amministratore delegato Francesco Iorio la banca si prepara al lancio dell’aumento di capitale, i grandi azionisti della Popolare di Vicenza sono pronti per la costituzione di un patto di sindacato volto a stabilizzare la governance in vista dell’assemblea. In cabina di regia c’è l’associazione Futuro 150, presieduta da Silvio Fortuna, che raggruppa alcuni dei principali azionisti del gruppo creditizio berico e che oggi è proiettata verso l’8% del capitale.

Ieri sera, dopo l’assemblea generale di Confindustria Vicenza e proprio mentre il consiglio di amministrazione della Popolare di Vicenza stava definendo la forchetta di prezzo per l’aumento di capitale, i vertici dell’associazione si sono riuniti per discutere dell’accordo che potrebbe essere annunciato in tempi brevissimi. «L’idea sarebbe quella di costituire almeno un patto di consultazione, ma probabilmente anche di voto, prima del lancio dell’aumento», spiega a MF- Milano Finanza Andrea Beretta Zanoni, docente di Economia Aziendale all’Università di Verona e portavoce del progetto. L’accordo dovrebbe anche spianare la strada alla presentazione di una lista nella prossima assemblea di giugno. L’associazione Futuro 150 si è candidata a giocare un ruolo di primo piano nella futura governance della banca, anche se l’aumento di capitale potrebbe modificare in profondità gli assetti proprietari spalancando la strada a nuovi azionisti di peso per la ex banca popolare. Della compagine fanno parte alcuni nomi di peso dell’economia veneta. Oltre a Fortuna (amministratore delegato di Arclinea Arredamenti e presidente della Fondazione Studi Universitari di Vicenza) nel consiglio direttivo siedono tra gli altri Agostino Bonomo (presidente della Confartigianato di Vicenza), Domenico Corà (industria e commercio di legnami), mentre tra i soci fondatori compaiono i nomi di Loison (storica dinastia dolciaria di Costabissara), del notaio Gian Paolo Boschetti, di Gian Carlo Ferretto (ex numero uno di Confindustria Veneto ed ex vicepresidente della banca) e perfino di Barbara Diquigiovanni, figlia del presidente del Real Vicenza Lino Diquigiovanni.

Acque più agitate invece per i grandi azionisti di Veneto Banca. La scorsa settimana la Bce avrebbe scritto una lettera alle due associazioni «Per Veneto Banca» e «Azionisti di Veneto Banca» per chiedere alcuni interventi urgenti. Le due formazioni infatti si sono coalizzate per presentare una lista in vista dell’assemblea del 5 maggio che dovrà rinnovare interamente il board della banca. La Bce ha acceso un faro sull’iniziativa, chiedendo in tempi molto stretti risposte in merito ad alcuni quesiti precisi: presenza di accordi di voto nelle due associazioni, strategie industriali per la banca, politiche di bilancio e posizione rispetto al progetto di aumento e ipo. Secondo quanto risulta, le associazioni avrebbero già inviato una risposta formale alla Bce, ribattendo punto su punto alle richieste. In particolare, sarebbe stato manifestato pieno sostegno al progetto Serenissima messo in campo da Veneto Banca, ossia l’aumento di capitale e la quotazione dell’istituto a Piazza Affari. Inizialmente l’associazione «Per Veneto Banca» aveva avanzato più di una riserva nei confronti della tempistica della quotazione, pur avendo votato a favore nell’assemblea dello scorso dicembre. Come per il nocciolo duro vicentino, anche in questo caso i nomi sono prestigiosi. Nella formazione sarebbero infatti confluite le famiglie Ferrarini (salumi), Carraro (elettronica), Caovilla (scarpe femminili d’alta moda), Batacchi (settore immobiliare), Cavalcante (multy family office), Celentano (pubblicità) e Buffon (lavorazione del legno). (riproduzione riservata)

 

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MF-MILANO FINANZA martedì 19 aprile 2016
Il dopo Draghi è già cominciato – In Germania cresce l’insofferenza nei confronti del banchiere italiano. E sono partite le manovre per la successione. L’obiettivo è finirla con tassi sottozero e Qe. Così l’Italia tornerebbe alla crisi del 2011

di Marcello Bussi
Il 2019 è dietro l’angolo. Almeno secondo la Csu, il partito bavarese gemello della Cdu di Angela Merkel. In quell’anno scadrà il mandato di Mario Draghi alla presidenza Bce. E già è partita la corsa alla successione. Il numero due del gruppo parlamentare della Csu al Bundestag, Hans-Peter Friedrich, ieri ha dichiarato al quotidiano popolare Bild che nel 2019 la guida della banca centrale dovrà passare a «un tedesco, che si senta fedele alla tradizione della Bundesbank di stabilità valutaria».
Il solito teatrino della politica, dirà qualcuno.
Ma la presa di posizione di Friedrich arriva dopo le pesantissime affermazioni del ministro delle Finanze Wolfgang Schaeuble, secondo il quale Draghi con il Qe e la politica dei tassi sui depositi sotto zero avrebbe favorito l’ascesa del partito anti-euro Alternativa per la Germania (AdF ) alle ultime elezioni regionali. Un attacco talmente duro e diretto che perfino il presidente della Bundesbank Jens Weidmann si era sentito in dovere di riaffermare l’indipendenza della Bce. Ma le acque non si sono calmate. «Non possiamo permetterci di avere un altro Draghi; in futuro ci serve un esperto finanziario tedesco al timone della Bce», ha dichiarato sempre alla Bild un altro parlamentare della Csu, Hans-Peter Uhl, nel cui mirino c’è soprattutto la decisione dell’istituto di Francoforte di portare in territorio negativo i tassi sui depositi. Tale misura era stata fortemente avversata dalle Sparkasse, le casse di risparmio tedesche, che offrono ai correntisti rendimenti piuttosto redditizi ma che ora potrebbero vedersi costrette a trasferire su di loro i tassi negativi. Di conseguenza i risparmiatori, trovando sempre meno conveniente depositare il denaro in banca, si stanno già sempre più spostando sugli investimenti immobiliari. Il risultato è stato un aumento dei prezzi delle case che va a colpire un altro pilastro del modello tedesco: mantenere l’inflazione bassa per poter contenere il costo del lavoro.
A preoccupare un po’ tutti in Germania è poi il fatto che il Qe ha portato sotto zero i rendimenti della maggior parte delle emissioni di titoli di Stato, cosa che alla lunga mette a rischio il sistema pensionistico (vale la pena ricordare che lo stesso succede per le pensioni degli italiani). Anche perché questa situazione rischia di durare ancora a lungo. Le ultime stime della Bce danno l’inflazione nel 2018 all’1,6%, quindi ancora lontana dall’obiettivo di un livello di poco inferiore al 2%. È quindi molto probabile che il Qe duri per altri due anni. E non è affatto escluso che sia ancora in atto alla scadenza del mandato di Draghi, nell’ottobre 2019. Con conseguenze pesanti sui sistemi pensionistici e sul settore assicurativo. Figuriamoci che cosa potrebbe succedere se dopo le elezioni politiche dell’anno prossimo AfD entrasse nella coalizione di governo tedesca.
Facile immaginare che nel 2019 la Germania farà di tutto per avere un tedesco alla guida della Bce. Il candidato naturale sarebbe Weidmann, ma qualsiasi tedesco andrebbe bene per smantellare il Qe e aumentare i tassi d’interesse. Le conseguenze sull’Italia sarebbero devastanti. Grazie agli acquisti di titoli di Stato da parte dell’Eurotower anche le emissioni del Tesoro italiano hanno rendimenti negativi o bassissimi. Ma l’Fmi stima che nel 2019 il rapporto debito pubblico-pil sarà al 121,7%, sempre che vengano confermate le stime di crescita del pil, che negli ultimi anni si sono sempre rivelate un po’ ottimistiche. E comunque nel 2011, l’anno dell’esplosione dello spread, il rapporto era al 120,7%. Nel 2019 quindi l’Italia rischierebbe di trovarsi nelle stesse condizioni di allora. Draghi uscirebbe di scena a ottobre. Il mese successivo Weidmann metterebbe fine al Qe e così lo spread dell’Italia risalirebbe alle stelle. Certo, da qui al 2019 può succedere di tutto. E allora ecco le previsioni per giovedì prossimo, quando ci sarà la riunione di politica monetario del consiglio direttivo della Bce. Secondo gli strategist di Ig, «dopo le manovre monstre di marzo ormai da Francoforte il mercato non si aspetta alcuna decisione di rilievo almeno per un po’», ma Draghi «dovrà essere bravo a convincere gli investitori che le munizioni in mano a Francoforte sono ancora molte». Alberto Biolzi, responsabile advisory di Cassa Lombarda, ha sottolineato che il mercato si attende che «venga confermato un tono particolarmente accomodante e che sia ribadita la volontà di introdurre ulteriori misure, qualora necessarie». (riproduzione riservata)

 

————MF-MILANO FINANZA martedì 19 aprile 2016
Basta clausole di salvaguardia – Nell’audizione sul Def 2016 anche un faro sul debito: stretti i margini per farlo calare dal 2016. Abi chiede rapidità sui provvedimenti per il recupero- crediti. Ania vuole meno tasse sui fondi pensione

di Luisa Leone
Da stampella alla credibilità delle politiche di risanamento a fattore di incertezza. È la parabola delle clausole di salvaguardia, introdotte qualche anno fa nel bilancio pubblico, puntualmente disattese e che presto potrebbero essere definitivamente abbandonate. «Non c’è alternativa a interventi rigorosi ed efficaci sulle entrate e sulle spese», ha detto ieri, riferendosi al meccanismo delle clausole, il vice direttore generale di Bankitalia, Luigi Federico Signorini, nel corso di un’audizione in Parlamento sul Documento di Economia e Finanza 2016.
Così se la prevista sterilizzazione dell’aumento dell’Iva nel 2017, per 15 miliardi, è «tutto sommato condivisibile», considerati i possibili effetti recessivi, la Banca d’Italia non può fare a meno di notare che le clausole di salvaguardia «non sono uno strumento efficace per rafforzare la credibilità del risanamento delle finanze pubbliche» e anzi «se ripetutamente disattese, come di fatto è accaduto, possono accrescere l’incertezza». Se fossero eliminate, insomma, «non le rimpiangeremo», ha chiosato Signorini riferendosi al progetto di legge sul bilancio pubblico che sta per essere depositato in Parlamento e che, come anticipato ieri dal presidente della commissione Finanze della Camera, Francesco Boccia, non dovrebbe più prevedere la possibilità di fare ricorso a questo strumento.
Nel commento al Def ha poi trovato spazio anche un monito sul debito pubblico. Importantissimo per Bankitalia è aver confermato la discesa del rapporto debito/pil già dal 2016, nonostante il peggioramento delle previsioni di crescita, ma «i margini non sono ampi». Il programma di privatizzazioni per lo 0,5% del prodotto è «ambizioso» ma soprattutto «il tasso di crescita nominale del prodotto che consente al rapporto debito pil di scendere nel 2016 è circa il 2%, non molto sotto il 2,2% incluso nello scenario programmatico». Insomma se l’economia andasse anche lievemente peggio del previsto, l’obiettivo potrebbe essere mancato. Perciò «sarà necessario mantenere durante l’anno uno stretto monitoraggio dei conti pubblici, anche in connessione con l’evoluzione del quadro macroeconomico». Più in generale lo scenario tratteggiato dal Def» non può dirsi implausibile» ma «resta il rischio di evoluzioni meno favorevoli». Dalla Banca d’Italia è arrivato poi il placet ai provvedimenti messi in campo, e in cantiere, dal governo per aiutare le banche a smaltire lo stock di sofferenze accumulate durante la crisi. Dopo il varo del fondo privato Atlante, è atteso in questi giorni un decreto con ulteriori interventi volti ad accorciare i tempi del recupero crediti. Provvedimento importantissimo secondo l’Abi, perché ogni anno di riduzione dei tempi di recupero, secondo il direttore generale, Giovanni Sabatini, ridurrebbe di circa il 10% «lo scarto tra prezzo di offerta e prezzo di domanda» degli npl. Per questo nell’audizione di ieri l’associazione ha sollecitato rapidità nell’emanazione degli interventi annunciati. Infine, l’Ania, con il dg Dario Focarelli, ha sottolineato l’opportunità di intervenire sulla tassazione dei fondi pensione, penalizzati dalla Stabilità 2015, soprattutto nella prospettiva di una maggiore flessibilità sui requisiti pensionistici. (riproduzione riservata)

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MF-MILANO FINANZA martedì 19 aprile 2016
Anche il Bollettino di Via Nazionale avverte l’Europa: stop all’austerity o saranno guai

di Angelo De Mattia
Nelle riunioni primaverili a Washington del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale e del G20 è emersa una larga convergenza sui rischi al ribasso della crescita globale e sulla terapia preventiva che deve far leva su un politica monetaria accomodante, su riforme di struttura e su politiche fiscali adeguate. Come di consueto, i tre organismi non hanno adottato alcuna decisione di politica economica che possa avere uno sbocco operativo, continuando così nella loro configurazione come sedi di rilascio di statistiche, di confronto, di dibattiti, nonché di espressione di desiderata. Nulla è stato poi rappresentato a proposito dell’esigenza di una riforma degli organismi finanziari internazionali, a partire dallo stesso Fmi. Una possibile eccezione al tono delle riunioni primaverili proprio di un mero forum di confronto è dato dalla promozione, da parte del Fondo, di una task-force contro l’evasione fiscale – con particolare riferimento ai centri offshore – che vedrebbe la partecipazione, oltreché dello stesso Fondo, della Banca Mondiale, dell’Ocse e dell’Onu, in conseguenza dell’appello di cinque Paesi europei (Gran Bretagna, Germania, Italia, Francia e Spagna) dopo la deflagrazione dello scandalo Panama Papers. Vedremo quali saranno i risultati di questo gruppo di azione.
In tale contesto di prospettive non incoraggianti per il rallentamento della crescita globale e del commercio internazionale, con l’acutizzazione dei rischi geopolitici e il non risolto problema del prezzo del petrolio, si colloca la situazione dell’Italia, come è vista dal recente Bollettino Economico della Banca d’Italia. Nel primo trimestre la ripresa risulta ancora moderata, anche se la crescita è superiore rispetto al precedente trimestre; i miglioramenti del mercato del lavoro sono rilevanti, prosegue il rilancio graduale del credito, aumentano i depositi delle banche e i prestiti deteriorati hanno smesso di crescere: sono, questi, i principali dati positivi riportati nel Bollettino. Ma queste informazioni sono bilanciate da altri dati: calano le vendite sui mercati extra Ue, con il rischio che ciò si ripercuota sui piani di investimento delle imprese in un contesto in cui le prospettive della domanda estera anche in Italia risentono delle incertezze sull’andamento del commercio mondiale; resta ancora elevata la disoccupazione, soprattutto quella giovanile; la deflazione è conseguenza non trascurabile degli ampi margini di capacità produttiva e di forza lavoro inutilizzati; il debito pubblico segna il 2% in più rispetto allo stesso mese del 2015; gli analisti hanno rivisto al ribasso le previsioni di aumento del pil per quest’anno e ora la maggior parte dei previsori le colloca all’1- 1,2%. Da tutto ciò il Bollettino ricava che è fondamentale il consolidamento della crescita e che il ritorno dell’inflazione su livelli coerenti con il mantenimento della stabilità dei prezzi esige, come accennato, il riassorbimento della capacità produttiva inutilizzata e della disoccupazione. Ma è essenziale, conclude il Bollettino, che l’azione della politica monetaria sia affiancata dall’operare delle politiche economiche. Insomma, il sostegno dell’attività economica e dell’occupazione è presupposto necessario per la risalita dell’inflazione verso la stabilità. Ieri nell’audizione sul Def alla Camera il vicedirettore generale di Bankitalia Luigi Federico Signorini ha tra l’altro sostenuto che non c’è alternativa a interventi rigorosi ed efficaci sulle entrate e sulle spese. Quanto alle clausole di salvaguardia, ha detto che, se ripetutamente disattese (come, del resto, sta accadendo), possono accrescere l’incertezza.

Il Bollettino e quest’ultimo intervento presentano un quadro incisivo dei problemi con i quali ci stiamo confrontando. Dato il contesto globale esaminato negli incontri di Washington, sarebbe necessario che l’Europa battesse un colpo per politiche meno restrittive, abbandonando la linea dell’austerità che ancora sembra vigere ai diversi livelli. Sono essenziali le politiche nazionali, ma senza l’apporto europeo, anzi con le limitazioni che l’Unione appone alle strategie nazionali, non sarà possibile riassorbire capacità produttiva e occupazione. Per non parlare del debito, che ancora una volta presenta la sua funzione pressoché paralizzante le iniziative per lo sviluppo. E ancora si ripropone la necessità di un’organica politica – nazionale ed europea – per il suo taglio. Una politica che, considerato come un alto debito sia esposto a gravi rischi in caso di shock avversi, nell’audizione di ieri Signorini vuole chiara, visibile e progressiva, avendo comunque presente che l’azione sui conti pubblici è inscindibile da una politica economica per una crescita robusta e duratura. L’emissione di eurobond per il progetto, avanzato dall’Italia, di Migration Compact, importante per creare opere e lavoro nei territori di provenienza dei flussi migratori, dovrebbe essere anche l’argomento che provoca finalmente un riesame delle politiche europee ancora sostanzialmente austere. A livello globale siamo quindi avvertiti che non andiamo incontro a «sorti magnifiche e progressive». E allora quando si agirà? In Europa si pensa di risolvere tutto con la micro-flessibilità nell’osservanza delle regole? E il debito? (riproduzione riservata)

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MF-MILANO FINANZA martedì 19 aprile 2016
La Chili di Parisi lancia minibond, Unicredit sottoscrive

di Andrea Giacobino
Nei giorni scorsi nello studio meneghino del notaio Ubaldo La Porta si è tenuta un’assemblea straordinaria di Chili, piattaforma Internet di film a noleggio e in vendita, di cui il candidato sindaco di Milano Stefano Parisi è azionista di maggioranza e già presidente, avendo lasciato recentemente la carica all’amministratore delegato Giorgio Tacchia in considerazione dei sopravvenuti impegni politici.

L’assemblea ha in primo luogo varato l’emissione di un prestito obbligazionario da 1,875 milioni rappresentato da 10 titoli obbligazionari ciascuno del valore nominale di 187 mila euro. Ciò al fine «di assicurare alla società una congrua provvista di mezzi finanziari», si legge nel verbale d’assemblea. I titoli verranno collocati in private placement a investitori istituzionali, ma Tacchia ha subito precisato che «all’atto dell’emissione il prestito è stato interamente sottoscritto da Unicredit » e le obbligazioni saranno «incluse in un portafoglio di minibond, anch’essi sottoscritti da Unicredit ». Il portafoglio beneficia della garanzia diretta del Fondo Centrale di Garanzia e perciò Chili beneficerà di un’agevolazione in termini di minor costo complessivo del finanziamento. Il prestito, con scadenza nel 2021, avrà un tasso d’interesse pari all’Euribor a 3 mesi maggiorato del 3,9% annuo. Il prestito targato Unicredit giunge a poche settimane di distanza da una altro prestito obbligazionario del valore nominale di 3 milioni, di cui 2,2 riservati a Negentropy Special Situation, fondo emanazione di Negentropy Capital Partners, hedge fund che investe in distressed assets e non performing loans, ora in cordata con Daniele Buaron nel patto per il 21,8% di Prelios . Soci di Chili sono oggi la Brace srl (di cui Parisi è amministratore unico) col 48,1%, seguita col 24% da Antares Private Equity (fondo guidato da Stefano Romiti), dal 14,8% del veicolo Investinchili e dal 6,8% del fondo Negentropy. L’assemblea di Chili ha poi integrato il cda con la nomina di Massimiliano Benedetti. Quest’ultimo è un nome noto nel mondo del business in rete, visto che è stato direttore marketing di Yoox e attualmente è azionista di Xceed (lanciata fra gli altri dal private equity 360 Capital), Home Food e Biocom. (riproduzione riservata)

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MF-MILANO FINANZA martedì 19 aprile 2016

Dalle banche popolari un modello alternativo di sviluppo

di Corrado Sforza Fogliani*
Pubblichiamo un estratto dell’intervento pronunciato in occasione dell’apertura delle celebrazioni per il 140° anniversario della nascita dell’Assopopolari.
Diamo oggi il via – in questa sala del Senato densa di ricordi e nel giorno anniversario di una storica scelta degli italiani per la libertà e contro ogni totalitarismo – alle programmate manifestazioni per la celebrazione del 140° anniversario della nascita dell’Associazione fra le banche popolari. «Stringere i diversi sodalizi di credito popolare in un consorzio, il quale miri al loro reciproco perfezionamento e vegli alla tutela dei comuni interessi». Questa la priorità che Luigi Luzzatti, insieme a sette presidenti di banche popolari che già ad aprile avevano costituito un comitato promotore, fissò nella circolare all’origine, il 10 agosto 1876, della prima associazione di imprese dello Stato unitario, da lui – anima e infaticabile costruttore del credito popolare – espressamente voluta.

Ventidue furono le banche popolari fondatrici. Erano nate a partire dal 1864 ed avevano subito avuto una rapida diffusione, arrivando a superare il numero di cento nel 1876 e di duecento solo dieci anni dopo, fino ad arrivare a essere quasi 700 all’inizio del ‘900.

Le popolari – banche cooperative rivolte alle necessità del commercio e dell’industria minore e locale, ma anche delle famiglie, e guidate dai principii di cooperazione e sussidiarietà – diventarono, in pochi anni, banche di media entità e, in alcuni casi, di ragguardevole entità. Il movimento cooperativo italiano, strutturato sul sistema già operativo in Germania e Francia, si trovò a dover supplire all’assenza di altre istituzioni e di un vero e proprio sistema bancario. Le accresciute e diversificate dimensioni qualitative e quantitative fecero subito sentire l’esigenza di un organismo di aggregazione e confronto. Da cui l’Associazione, che consacrò al primo articolo del proprio statuto «il carattere precipuo della mutualità» che tutte accomunava e che ancor oggi accomuna tutte le popolari. Il contesto economico odierno è certamente differente rispetto a quello della seconda metà dell’Ottocento, quando nacquero le prime banche popolari e, con esse, l’Associazione, ma – a ben guardare – proprio in riferimento alla non ancora superata crisi economica, tali diversità appaiono meno profonde di quanto possano apparire. Il livello di benessere acquisito a partire dal secondo dopoguerra del secolo scorso è notevolmente superiore a quello dell’Italia nella quale nacquero le prime popolari, ma è anche vero che le forze più attive del tessuto economico, le potenzialità di crescita, le speranze per un futuro migliore risiedono ancora oggi, e ancor più nella situazione nella quale ci troviamo, nella piccola e media imprenditoria, nelle comunità locali dei centri produttivi ed agricoli, negli eredi di coloro che furono l’anima fondatrice del credito popolare. Dopo il periodo di espansione della grande industria, gran parte del merito dello sviluppo economico è andato alle stesse categorie produttive che avevano sostenuto, oltre cento anni fa, il primo momento di significativa evoluzione del Paese. E 140 anni di storia d’Italia (durante i quali la nostra categoria ha dato all’Italia anche un governatore come Bonaldo Stringher) sono anche 140 anni della nostra Associazione, forte – al 31 dicembre 2015 – di 63 banche associate, 52 società finanziarie e 152 banche corrispondenti, per un complesso – del nostro sistema – di un 1,3 milioni di soci, 16,3 milioni di clienti, 80.700 dipendenti, 450 miliardi di attivo, per una quota di mercato di più del venticinque per cento sia nella raccolta che negli impieghi. L’Italia attraversa oggi un periodo tribolato, nel quale il modello cooperativo sembra essere messo in discussione, nella forma e in quello spirito che caratterizza le banche di territorio al di là della dimensione che esse hanno. Noi siamo decisi a difenderlo, i numeri ci danno ragione, abbiamo una patrimonializzazione di categoria che è il doppio di quella richiesta. (…) Questi valori, diversi da quelli che hanno dominato gli anni 80 e 90, stanno tornando, oggi, ad essere fondamentali. Anche in Italia si parla sempre più frequentemente di nuova economia, di un’economia dei beni comuni che presuppone l’interazione tra tutti gli attori economici secondo meccanismi di diritto privato. La presenza e la prossimità tornano a essere caratteristiche centrali e il sostegno alle famiglie, alle comunità locali e alle singole pmi fanno della cooperazione bancaria un soggetto essenziale della ripresa economica, in tutto il mondo. La tenuta in questi anni di crisi, la capacità di essere presenti capillarmente sui territori, di declinarsi nelle forme più compatibili alle diverse realtà, rappresentano una risorsa per il futuro. Le banche popolari, interne a (e protagoniste di) questo dibattito internazionale, sono a pieno titolo proiettate nel futuro, proprio perché, anche grazie alla capacità di essere presenze di prossimità, sono pienamente rispondenti alle caratteristiche che saranno necessarie nella nuova fase di economia condivisa che ci aspetta, un’economia libera da condizionamenti statalistici, che invano ormai si oppongono all’avvento di una società nuova, che superi l’invasività dello Stato moderno. Noi saremo, ancora una volta, anche con queste avanguardie. *presidente dell’Associazione delle banche popolari e del territorio.

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MF-MILANO FINANZA martedì 19 aprile 2016

Unipol non vuole più i rating di S&P

di Mauro Romano
Il gruppo Unipol dice ufficialmente stop a Standard & Poor’s. L’agenzia ha ritirato, su richiesta di Unipol , tutti i suoi rating relativi al gruppo e alle sue controllate, come era già avvenuto a febbraio dell’anno scorso per Generali . La richiesta «scaturisce da un’attenta analisi e si basa principalmente sulla non condivisibilità per l’acritico e rigido utilizzo di modelli valutativi e per l’applicazione meccanica di alcuni criteri metodologici, come la limitazione del rating di UnipolSai Assicurazioni al livello del rating sovrano», hanno dichiarato ieri da Bologna. Il problema è insomma l’investimento in Btp. Tali approcci «hanno impedito che i risultati conseguiti da Unipol nel corso del piano industriale 2013-2015 potessero essere riflessi in una più adeguata valutazione», hanno aggiunto, ricordando che la compagnia continuerà ad essere valutata da Fitch, Moody`s, AM Best, Dagong Europe. S&P aveva assegnato il rating BBB-a UnipolSai e BB a Unipol . (riproduzione riservata)

 

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Caixa lancia offerta da 1,6 mld sul portoghese Banco Bpi

di Franco Polacco
CaixaBank ha annunciato il lancio di un’offerta pubblica di acquisto sul 56% del portoghese Banco Bpi a 1,113 euro per azione, per una valutazione complessiva di 1,6 miliardi di euro. CaixaBank, che già detiene il 44% dell’istituto portoghese, ha condizionato il buon esito dell’offerta a un tasso di adesione da parte degli azionisti del Banco Bpi di oltre il 50% e dall’eliminazione della limitazione al 20% dei diritti di voto attualmente imposta dalla banca portoghese. L’annuncio arriva dopo che Caixa e l’investitore angolano Isabel dos Santos (figlia del presidente dell’ex colonia portoghese, Jose Eduardo dos Santos), che detiene il 18,6% di Bpi (un altro pacchetto del 2,3% attraverso la banca angolana Banco Bic Sa), non sono riusciti a raggiungere un accordo per il passaggio alla banca spagnola del pacchetto azionario. Il titolo Bpi è sospeso dall’8 aprile, quando ha chiuso a 1,191 euro per azione. «Si tratta di un passo logico nell’espansione internazionale di CaixaBank vista la sua conoscenza di Bpi e del settore bancario portoghese, dove la banca è attiva dal 1995», ha spiegato l’istituto spagnolo in una nota. Caixa aveva provato a prendere il controllo del Banco Bpi già lo scorso anno con un’offerta che valorizzava il 100% dell’istituto portoghese 1,1 miliardi. L’offerta, tuttavia, non era andata a buon fine, anche perché l’assemblea dei soci del Banco Bpi non aveva autorizzato l’eliminazione al tetto ai diritti di voto (fissato al 20%) che CaixaBank aveva indicato anche in quell’occasione come condizione di efficacia dell’offerta. Positivo il giudizio a caldo degli analisti sul razionale dell’operazione. «Riteniamo che l’offerta di Caixa sia la migliore soluzione disponibile dopo il blocco di Santoro, ma l’impatto sul capitale potrebbe essere alto», ha spiegato l’analista Kepler Cheuvreux, Alfredo Alonso, che conferma il rating buy sul titolo Caixa. (riproduzione riservata)

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MF-MILANO FINANZA martedì 19 aprile 2016
Milano resta sotto effetto Atlante – A Piazza Affari (+0,55%) appuntamento con lo stacco di alcune cedole Wall St. in progresso dello 0,6%, scivolone del petrolio ma con recupero

di Lucio Sironi
Inversione di rotta nel finale per le principali borse che così chiudono in rialzo sulla scia del prezzo del petrolio, che ha recuperato le perdite fino al 6% accumulate a inizio seduta in reazione al fallimento del vertice di Doha tra i produttori. In ascesa dello 0,68% Francoforte, poco meno dello 0,4% Zurigo e Madrid, 0,26% Parigi e 0,15% Londra.
Segno più anche a Wall Street grazie al recupero del greggio, che molti interpretano come segno che il mercato aveva già scontato l’assenza di soluzioni a Doha. Altro fattore che è intervenuto sul tema oil sono gli effetti dei terremoti in Giappone e gli scioperi che stanno interessando l’industria petrolifera in Kuwait. Indice Dow Jones in salita dello 0,6%, S&P 500 dello 0,63%, Nasdaq dello 0,44%. Sul listino Hasbro in crescita del 5,8% grazie alle vendite sostenute dei giocattoli legati all’ultimo film di Guerre stellari, mentre Disney è salita del 3% grazie agli incassi del Libro della giungla, 103,6 milioni di dollari ai botteghini Usa nello scorso weekend. Il light crude Wti ha ceduto 58 cent a 39,78 dollari al barile, il Brent di Londra 37 cent a 42,73 dollari.
A Piazza Affari indice Ftse Mib in rialzo dello 0,55% a 18.358, dopo aver toccato un minimo intraday a 17.903, con scambi per 2,24 miliardi di euro, in linea con il dato di venerdì 15. Da considerare anche l’impatto dovuto allo stacco dei dividendi. Fra i titoli che lo hanno distribuito ci sono Unicredit (0,12 euro, ma il controvalore è offerto prioritariamente in azioni), Prysmian (0,42 euro per azione), Banca Mediolanum (0,14 euro), Finecobank (0,255 euro), Banco Popolare (0,15 euro). Venendo ai vari settori, quello dei bancari ha beneficiato ancora dell’effetto fondo Atlante, in particolare Mps è balzato dell’8,2%, Carige del 6,7%, Ubi del 5%, Bper del 2,6%, Mediobanca dell’1,7%. Nel risparmio gestito Anima in evidenza, in rialzo del 5,7% dopo una fase di debolezza, mentre Unipol assicurazioni ha guadagnato il 5,3% a 3,776 euro (sul titolo Mediobanca Securities indica un target price di 4,5 euro). Tra i petroliferi in forte ascesa Saipem , +5,2%, meno mosse invece le chiusure di Tenaris ed Eni , mentre tra gli industriali Fiat Chrysler è salita del 3,1% a 6,89 euro e Finmeccanica dell’1,8% a 11,06 euro, su cui Ubs fissa un prezzo obiettivo a 13,6 euro. In tenuta Ferragamo (+0,4% a 21,34 euro) su cui SocGen ha ridotto il prezzo obiettivo da 24 a 22 euro. Sul resto del listino Astaldi in progresso del 4,6% a 4,09 euro dopo che il pool d’imprese che la comprende ha conquistato il contratto per la realizzazione dell’autostrada Brasov-Oradea, in Romania. Su Ovs (+1,2%) analisti positivi dopo la pubblicazione dei risultati 2015. Strappi per i titoli Waste Italia (+23,3%), Prelios (+11,9%) e Risanamento (+7,5%). Giù invece del 6% Premuda e del 4,3% Gefran . (riproduzione riservata)

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CORRIERE DELLA SERA martedì 19 aprile 2016
Come rimanere sui mercati senza le agenzie di rating – Dopo Generali anche Unipol chiede il ritiro del merito di credito

di Giuliana Ferraino
Ma i rating servono ancora per valutare il rischio di un bond? Il gruppo Unipol ha deciso che può fare a meno dei «giudizi» dell’agenzia americana Standard and Poor’s (S&P), non condividendo «l’acritico e rigido utilizzo di modelli valutativi» e «l’applicazione meccanica di alcuni criteri metodologici come la limitazione del rating al livello del rating sovrano». Perciò, su richiesta del gruppo guidato da Carlo Cimbri, ieri l’agenzia Usa ha ritirato i suoi rating, dopo averli confermati, sia sulla capogruppo che sulle sue controllate, inclusa UnipolSai, seconda assicurazione italiana, quotata in Piazza Affari e valutata BBB-,come il debito pubblico italiano.
Lo scorso febbraio anche le Assicurazioni Generali avevano «licenziato» S&P e abbandonato i suoi «voti», in disaccordo con «l’inflessibilità» dei criteri adottati dall’agenzia nel tener conto del significativo miglioramento della solidità finanziaria della compagnia negli ultimi due anni.
Nel mirino finisce ancora una volta il cosiddetto «sovereign cap», il limite oltre il quale S&P non può alzare il suo voto sulle società con un’esposizione rilevante verso un Paese. Nel caso di Unipol S&P stima un’esposizione – includendo titoli di Stato, corporate bond, prestiti, azioni e immobili – superiore all’80% degli investimenti, tanto che in caso di crisi, l’impatto sarebbe molto negativo (la compagnia non supera lo stress test dell’agenzia). Nel caso del Leone con un’esposizione degli investimenti verso l’Italia pari al 27%, S&P poneva il merito di credito di Generali due scalini sopra il giudizio sul nostro Paese. Non oltre. Ma non abbastanza, secondo Trieste, per riconoscere il turnaround della compagnia.
La polemica riguarda (almeno per ora) solo S&P, e Unipol continuerà a ricevere i rating di Fitch, Moody’s, Am Best e Dagong Europe. Ma per Standard & Poor’s la nuova rinuncia ai suoi giudizi è un altro schiaffo in un Paese dove è imputata nel processo in corso a Trani con l’accusa di manipolazione del mercato, per il doppio downgrade sul merito di credito dell’Italia nel momento più acuto della crisi finanziaria. E dove è incappata nello scandalo Parmalat e nel lungo contenzioso, avviato nel 2005 dall’allora commissario straordinario, per i rating emessi prima la bancarotta del gruppo, risolto lo scorso luglio con il pagamento di 14,5 milioni di euro a favore di Parmalat, senza ammissione di responsabilità. @16febbraio-© RIPRODUZIONE RISERVATA

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LA REPUBBLICA martedì 19 aprile 2016
“Anche Unipol nel Fondo Va messo in sicurezza l’intero sistema bancario”

FABIO BOGO
ROMA. Carlo Cimbri e l’UnipolSai non si tirano indietro. Il Fondo Atlante avrà il contributo del gruppo assicurativo, perché di fronte alla potenziale crisi sistemica del credito «non si può guardare dall’altra parte. Qui non si tratta di intervenire per aiutare questa o quella banca, ma di mettere in sicurezza un settore importante dell’azienda Italia, e quindi lo stesso Paese».
Dottor Cimbri, ma come siamo arrivati a questo punto, e perché si chiede anche alle compagnie di assicurazione di dare risorse per salvare le banche?

«La situazione attuale è indubbiamente frutto di alcune sottovalutazioni nel processo di trasferimento della sovranità nazionale agli organismi europei in alcuni settori, come quello bancario. La lunga fase di crisi economica che il Paese ha attraversato, con il conseguente indebolimento delle nostre posizioni in chiave europea, accentuatasi nelle fasi di speculazione sui titoli di Stato, ci ha portato ad accettare una concezione luterana nella risoluzione dei debiti e delle crisi bancarie lontana dalla nostra cultura. Il sistema bancario italiano, con la supervisione di Bankitalia, aveva storicamente dimostrato grande stabilità e la capacità di risolvere situazioni critiche. A memoria il fallimento di istituti di credito si contano sulle dita di una mano, l’Ambrosiano, la banca gestita da Sindona… E’ un fatto che i nuovi criteri europei hanno prima contribuito a strozzare il settore del credito e poi accentuato la riduzione del valore delle garanzie, con effetti sulle sofferenze ».

Gli errori li fanno gli uomini. Qui chi ha sbagliato? I governi, la Banca d’Italia, la vigilanza?
«Non alimentiamo sterili caccie alle streghe ma cerchiamo piuttosto di aumentare il livello di consapevolezza degli addetti ai lavori e dell’opinione pubblica. La casa comune europea è un valore che va salvaguardato e la cui struttura deve essere completata nell’interesse delle nuove generazioni che sempre più si troveranno a competere in uno scenario economico e sociale globale con insidie ed opportunità nuove. Detto questo, il nostro Paese può arrivare nella nuova casa comune in prima, seconda, terza classe. Dipende da noi: da chi governa, certo, ma anche da chi fa impresa, da chi intermedia i corpi sociali, da tutti. Far valere adeguatamente il peso economico, sociale e culturale di un grande paese come l’Italia è una responsabilità comune. A volte prevenire situazioni potenzialmente laceranti per l’affidabilità che i cittadini ripongono nel sistema bancario ci dovrebbe indurre a posizioni di maggior contrasto con l’apparato di Bruxelles. Penso alle difficoltà conseguenti alla risoluzione delle quattro banche nei mesi scorsi, ai fatti tragici e alle tensioni anche sociali che ne sono derivate. Per salvaguardare i piccoli investitori, anni fa, dopo il fallimento di Lehman, noi ed altri assicuratori decidemmo unilateralmente di rimborsarli anche senza che ne avessero titolo giuridico. Sono situazioni diverse, certo, ma decidere di rimborsare i piccoli obbligazionisti utilizzando il fondo di garanzia bancario, probabilmente avrebbe attutito l’impatto degli eventi. Normative come il bail in vanno preparate nel tempo e adeguate alle caratteristiche di un sistema ed alla cultura di un paese».
Adesso con il Fondo Atlante ci mettiamo una pezza…
«Lo dirà il mercato. Noi cercheremo di fare la nostra parte. Quando ci sono problemi e c’è un’iniziativa che si propone fattivamente con atti concreti di contribuire a dare stabilità al Paese non ci giriamo dall’altra parte».
Il fatto di essere una compagnia italiana è il peso che grava su UnipolSai, secondo quanto sostiene il rating di Standard& Poor’s…
«Abbiamo revocato il contratto. Non condividevamo da tempo le loro metodologie. Abbiamo – ad esempio – molti titoli di Stato italiani in portafoglio, e siamo soddisfatti di averli. Se qualcuno lo ritiene un demerito, non ci stiamo».
A proposito di investimenti, si parla di un progressivo avvicinamento tra Unipol Banca e Bper. A che punto sono le trattative?

«Noi abbiamo interesse verso tutte quelle entità che fanno banca- assicurazione, quindi la Bper ma anche la Popolare di Sondrio e il Banco Popolare che va a fondersi con la Popolare di Milano. Dialoghiamo con spirito costruttivo con tutti».
Su Rcs, di cui siete azionisti, invece non c’è stato tanto dialogo con Cairo, che ha presentato un’offerta senza avvertire nessuno. Come si schiera Unipol Sai?

«A noi interessa valorizzare al meglio il nostro investimento. Io apprezzo le iniziative coraggiose, sostenute da spirito imprenditoriale. E Cairo mi è anche simpatico come imprenditore. Poi però devo fare valutazioni razionali. Lo scambio ora è nell’interesse di Cairo. Non mi turba il fatto che non abbia avvertito prima di muoversi, ma dico che c’è un’impresa valutata su valori alti, la sua, e un’altra, Rcs, meno perché oggi alle prese con un alto indebitamento. Sotto questo profilo l’offerta fotografa una situazione di mercato che ritengo penalizzante per gli azionisti Rcs. Valuteremo in corso di offerta il da farsi».

Altre cordate in campo?
«Tutto è possibile, ma per quanto ne so io non c’è assolutamente nulla».

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