Passata la festa, gabbato lo santo.
Proverbio attribuito a coloro che, dopo aver ottenuto il piacere richiesto, si dimenticano ben presto del bene ricevuto.
A chi è rivolto?
Ai banchieri, che hanno già dimenticato e, siamo certi, dimenticheranno per i prossimi mesi ed anni, l’enorme favore che la classe politica ha concesso loro.
Il 24 febbraio, la Commissione Bilancio della Camera ha deciso che non ci debbano più essere limiti agli stipendi dei banchieri.
Il cadeau è arrivato puntuale, atteso, ma è stato volutamente nascosto da televisioni, quotidiani e mezzi di informazione che gli stessi banchieri controllano con prebende e finanziamenti di ogni genere.
Dalle banche vengono infatti elargiti finanziamenti a partiti, a quotidiani, a televisioni, a iniziative sportive e culturali, a società sportive, a circoli culturali, a convegni, a congressi di partito.
Potremmo continuare e potrei continuare fino all’infinito.
Sperare ora in un codice di “autoregolamentazione” da parte dei banchieri è quanto di più illusorio si possa pensare.
È assodato che l’attuale crisi abbia preso avvio da una grave involuzione del sistema economico-finanziario: la creazione della ricchezza dipenderebbe, infatti, più che dall’attività lavorativa dalla finanza speculativa.
Il lavoro appare separato dalla ricchezza ed il mercato appare in conflitto con la democrazia.
In altre parole sembra che, specie guardando ad alcuni esempi di presunti grandi manager, non ci sia proporzione tra lavoro effettivo e ricchezza, tra bisogni e reddito.
Questa asserzione ha trovato nuovo fondamento anche qui da noi, in Italia, quando in modo elegante, o troppo disinvolto, lo scorso mese di febbraio è stato messo da parte il cosiddetto “tetto sulle retribuzioni dei manager del sistema bancario”.
E, si badi bene, non pensiamo alle – pur elevate – retribuzioni di certi dirigenti di primo livello, ma alle vere e proprie “rendite di posizione” di taluni manager capi-azienda che , per la loro entità, non possono trovare né giustificazione economica, in quanto prive di ogni riferimento proporzionale ai bisogni da soddisfare, né giustificazione morale, in quanto certe prestazioni sono frutto di mere logiche private e non concorrono affatto al bene comune.
Il mio, si badi bene, non è soltanto un giudizio morale, ma, soprattutto, è una valutazione di ordine politico.
Perchè se è vero che è compito della politica amministrare e scegliere, nell’interesse dei più, in questo caso è certo che si è scelto nell’interesse dei “meno”, cioè si è agito a tutela di una influente categoria di privilegiati.
Siamo noi i primi a sostenere che il bene delle aziende è il vero bene di tutti : qui vanno armonizzati bisogni ed interessi, in una logica strumentale di servizio alle persone.
Se, però, si stravolge la giusta gerarchia dei valori e dei fini lo spazio per le persone si riduce e si comprime il significato del lavoro. Questo deve essere ben chiaro.
Condivido la logica del merito, ancorché, a volte, difficile da misurare. Ma deve essere chiaro che merito e successo sono cose diverse, così come impegno e risultati.
Perciò una nuova aperta cultura del lavoro nelle imprese bancarie deve vedere porre in primo piano azioni collegate alla produttività sociale delle risorse.
Tra queste i manager che si distinguono per responsabilità e competenze.
Generare denaro per sé stessi è stato, per molti anni, l’imperativo categorico di taluni spregiudicati che si sono avvalsi di osservatori privilegiati e notizie di prima mano per gonfiare i propri compensi, anche ricorrendo ad azioni speculative ad altissimo rischio, che si sono avvalsi della complicità di quelle istituzioni che dovevano vigilare e controllare e che non lo hanno fatto.
Oggi il sistema dei controlli si è fatto più attento e tollera assai meno certi comportamenti.
Tuttavia l’equilibrio in azienda deve ancora ricomporsi.
Per questo è assurdo continuare a spingere la vendita di prodotti standardizzati ed esigere budget sganciati dalla vera potenzialità di assorbimento di un prodotto.
E’ necessario uscire dall’operatività ripetitiva ed esasperata dando spazio alla creatività diffusa delle persone, in un quadro normativo e contrattuale che si proponga come più avanzato, cioè più moderno, nuovo, aperto a raccogliere le idee di chi lavora, capace di creare una nuova cultura del lavoro.
Noi siamo pronti a rimetterci in gioco, anche nel prossimo rinnovo del Contratto nazionale. Ma sarà la controparte pronta a raccogliere la nostra sfida?
Molti sono in attesa che tutto ritorni come prima, che ritorni il periodo dei furbi e degli alti profitti.
La questione etica deve essere considerata all’interno del sistema bancario e al servizio di chi vi opera: i lavoratori bancari.
Noi siamo piuttosto tra coloro che nutrono una speranza nuova, non utopistica, ma concreta e reale. Cambiare le cose vincendo l’ipocrisia, smascherando comportamenti di comodo, avendo il coraggio della denuncia e la forza della proposta.
I banchieri hanno incassato l’ennesimo favore dalla classe politica dimostrando, ancora una volta, che a parole sono molto attenti a come apparire ma nella sostanza delle cose nascondono quella sfrontatezza e quell’egoismo figlio di chi si sente al di sopra di tutto e di tutti.
Il sindacato deve, unitariamente, battersi per garantire equità sociale ed un equilibrio sostenibile per tutti i lavoratori. Non deve scimmiottare economisti, politici e banchieri: deve fare semplicemente il proprio lavoro, deve fare il sindacato.
Lo voglio ricordare ancora una volta ripetendolo all’infinito: in tempi di crisi è vergognoso che con lo stipendio di banchiere ci si paghi lo stipendio di 400 giovani, neo assunti in banca.
(Da La Voce dei bancari n.4 Maggio 2010)