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POPOLARE VICENZA / Rigettato ricorso dell’ex Vicedirettore Generale contro la FABI

di Redazione

 – COMUNICATO STAMPA –

RESPINTO DA TRIBUNALE CIVILE DI MONZA IL RICORSO DI EX VICEDIRETTORE GENERALE DEL GRUPPO BANCA POPOLARE DI VICENZA, ADRIANO CAUDURO.

AVEVA CHIESTO ALLA FABI UN RISARCIMENTO DA 250MILA EURO LAMENTANDO GRAVISSIMI DANNI ALLA REPUTAZIONE, ALL’ONORE E ALL’IMMAGINE PROFESSIONALE

Il Tribunale di Monza ha rigettato l’azione giudiziaria proposta contro la FABI, Lando Sileoni (Segretario generale) e Giuliano Xausa (Segretario nazionale), da Adriano Cauduro, ex vicedirettore generale del Gruppo Banca Popolare di Vicenza e unico membro del vecchio management ad essere sin qui sopravvissuto allo scandalo della banca veneta, recentemente licenziato. Cauduro aveva accusato i vertici FABI di averlo gravemente diffamato, sottoponendolo ad una “vera e propria campagna di stalking mediatico”, per averne in varie occasioni, ma sempre in sedi sindacali, chiesto la rimozione, quale unico superstite del vecchio management coinvolto nel noto scandalo delle banche venete.

Cauduro aveva chiesto un risarcimento di ben € 250.000 lamentando gravissimi danni alla reputazione, all’onore, all’immagine professionale.

Non l’ha pensata così il Tribunale di Monza nel rigettare integralmente la domanda, ritenendo che la FABI, difesa dagli Avvocati Emilio Festa e dal Professor Antonio Pileggi, avesse legittimamente espresso la propria posizione sindacale. Secondo il Tribunale “Il conflitto aspro era meritevole di rilevanza pubblica, inserendosi in un contesto di crisi bancaria noto a livello nazionale, con enormi influssi a livello macroeconomico nazionale; un contesto di crisi che metteva a rischio risparmi e numerosi posti di lavoro”. Di qui “l’interesse sociale a che il sindacato pubblicizzasse le sue ragioni di polemica e critica contro la gestione in essere od opera della parte proprietaria/datoriale, e proponesse strategie future”.

Inoltre, sempre secondo il Tribunale, che la FABI avesse ritenuto Cauduro “responsabile” corrisponde a verità: “si considera un soggetto responsabile, al pari degli altri dirigenti, perché non poteva non sapere ciò che stesse accadendo. E quindi se ne chiedono le dimissioni, e l’avvio di procedure di responsabilità. Il tutto nel contesto di piattaforma rivendicava sopra menzionata. La valutazione è comunque basata su un argomentare giustificativo, non platealmente peregrino, campato in aria o irrealistico. Tanto basta per parlare di verità”.

La sentenza è pienamente rispettosa delle prerogative costituzionali del sindacato, costituzionalmente tutelate dall’art. 39 della Costituzione e reprime un tentativo, certamente antisindacale, di impedire al sindacato di esprimere la propria posizione in ordine alla credibilità ed alla legittimazione del proprio interlocutore datoriale.

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