La penisola potrebbe soffrire gli effetti del cambiamento climatico già nei prossimi 40 anni, spiegano gli esperti riuniti a Lecce. Si allungherà la stagione dei roghi, aumenteranno le ondate di calore e le precipitazioni brevi ma intense. E il rischio idrogeologico sarà molto maggiore
– di JACOPO PASOTTI –
I TEMI “caldi” che illustrano i mutamenti ambientali in atto a livello globale e quelli previsti nel nostro Paese. Ecco una selezione dei risultati degli ultimi studi sull’impatto del cambiamento climatico in Italia. Sono stati presentati durante la Prima Conferenza Annuale della Società Italiana per le Scienze del Clima (SISC), da poco conclusa a Lecce. Sono ricerche sul futuro di coste, montagne, e pianure della nostra penisola. Gli studi presentati dagli esperti rappresentano un campanello d’allarme per chi si occupa della gestione del territorio, delle risorse, e dei rischi naturali.
Incendi, risorse idriche e livello marino. Cambierà la temperatura, e questo si sa, ma insieme alla temperatura (che cresce soprattutto nelle massime e soprattutto in estate) aumenteranno anche gli incendi. In uno studio condotto nella Sardegna settentrionale, Pierpaolo Duce (CNR di Sassari) mostra che entro il 2050 la stagione degli incendi, attualmente tra giugno e ottobre, si allungherà mediamente di 7-9 giorni. Una eventualità, questa, “che genererà difficoltà nella gestione del controllo degli incendi”, spiega l’esperto. Entro il 2100 la stagione potrebbe allungarsi anche di 30 giorni.
L’aumento delle temperature sarà ancora più serio lungo la catena alpina, dove potrebbe essere perfino tre volte maggiore della media europea, dice Camilla Di Bari (Università di Firenze). Secondo i risultati delle sue ricerche le Alpi potrebbero perdere il 16% dei pascoli. Alcune specie erbacee più rare e di alta montagna spariranno del tutto. Aumenteranno gli eventi climatici estremi, come le precipitazioni intense ma di breve durata, con un acuirsi del rischio idrogeologico.
Aumenteranno poi le ondate di calore come quella che ha colpito l’Europa nel 2003 (in crescita del 10-15% per la metà del secolo). Queste ultime oltre all’impatto sulla salute colpiranno il settore energetico, spiega Paola Faggian (RSE di Milano). A soffrire della carenza delle risorse idriche saranno soprattutto la produzione di energia termo e idroelettrica. La pioggia, oltre ad influenzare la produzione idroelettrica, è fondamentale per il raffreddamento delle centrali termoelettriche, costruite proprio lungo i fiumi per sfruttare l’acqua per il raffreddamento. Un altro problema è la temperature dell’aria, che influenza la produzione elettrica, poiché le centrali a turbogas diminuiscono la loro potenza nei giorni con alta temperatura, quindi in coincidenza con i picchi di maggior fabbisogno per il raffrescamento richiesto dalla popolazione.
La carenza idrica contribuirà anche all’approfondirsi della falda. La regione mediterranea (escluse le Alpi in inverno) subirà infatti una diminuzione delle precipitazioni fra il 10% in inverno e il 30% in estate entro la fine del secolo. Questo provocherà un deficit idrico in particolare durante la stagione estiva. Secondo uno studio presentato da Silvia Torresan (Università Cà Foscari di Venezia), ad esempio, verso la fine del secolo le falde acquifere potrebbero ridursi del 7% (175 milioni di metri cubi persi) in Veneto e dell’11% (335 milioni di metri cubi) in Friuli. Il fenomeno colpirà prevalentemente il settore agricolo.
C’è poi il livello marino, che aumenta e continuerà a farlo. Quanto, dove, e con che ritmo (ciò che gli scienziati definiscono “incertezza”) varia molto a seconda della costa considerata, spiega Piero Lionello (Università del Salento e CMCC). “Per il nord Adriatico, per esempio, l’espansione sarà maggiore di 15cm, forse anche più di mezzo metro. Ciò provocherà una maggiore frequenza di potenziali inondazioni delle regioni costiere e dei danni causati dalle mareggiate”. Dice ancora Lionello: “L’acuirsi dei fenomeni estremi come le mareggiate aggraveranno i problemi già esistenti. Provocheranno l’inondazione di alcune aree di piana costiera depresse, forti problemi di erosione costiera per tutte le coste basse e sabbiose, infiltrazioni di acqua salata nelle falde costiere di acqua dolce e danni alla biodiversità di alcune zone umide costiere”.
Eppure qualcosa si può fare. Il nuovo rapporto dell’IPCC, che include ora i modelli regionali e non solo quelli globali, apre però una nuova fase non solo nelle scienze del clima ma anche nella produzione di strumenti per la mitigazione e l’adattamento al mutamento del clima. A spiegarlo è Donatella Spano, della Università di Sassari e dell’Euro-Mediterranean Center on Climate Change (CMCC), da pochi giorni eletta Presidente della SISC: “Ora possiamo studiare la penisola italiana con maggiore dettaglio ed accuratezza, regione per regione”. Spano nota però che ci possiamo attendere dei benefici per esempio in alcuni settori agricoli: “l’area di coltivazione dell’olivo si espanderà e l’aumento della CO2 atmosferica agisce da fertilizzante nella coltivazione dei cereali”, spiega.
Ma questo è forse poco più di un premio di consolazione. Il quadro che esce dalla Conferenza di Lecce è quello di una penisola che potrebbe soffrire già durante i prossimi 40 anni, e molto probabilmente patirà ancora di più entro la fine del secolo. In un territorio che si allunga per 1300 chilometri tagliando più di dieci paralleli da Sud a Nord ed in cui si trovano sia ghiacciai che aree desertiche il clima del prossimo futuro forma un mosaico di impatti diversi e importanti per ogni ecosistema ed ogni attività umana. Molti studi però mostrano una differenza tra gli scenari in cui le azioni per ridurre le emissioni sono scarse o nulle (scenari A1 e A2) e quelli in cui si sviluppano politiche di riduzione delle emissioni (scenari B1 e B2). In mezzo a tante incognite un messaggio è chiaro: si può fare qualcosa, se non per eliminare il problema, almeno per ridurne gli impatti negativi. Impossibile non prenderne atto, difficile ma importante prendere dei provvedimenti.