Da un lato l’oggettiva difficoltà a rimediare ai 131 miliardi di sofferenze scoperchiate dalla crisi, dall’altro la prospettiva che un’ulteriore parte dei circa 300mila bancari italiani sopravvissuti ai tagli degli ultimi anni, sia accompagnato alla pensione con sussidi pubblici. Si nasconde lo scontro in atto sul nuovo modello di banca post crisi, dietro al “cordiale” scambio di opinioni tra il presidente dell’Abi Antonio Patuelli (la lobby degli istituti di credito) e il leader della Fabi, Lando Maria Sileoni, che con oltre 100mila iscritti è il primo sindacato di un settore che, sebbene abbia perso quasi completamente quella allure sociale scolpita nel 1966 in un brano dei Gufi, continua a erogare stipendi superiori a quelli percepiti da figure equivalenti di altre categorie. Patuelli, dapprima ha messo le mani avanti chiarendo che non esiste «alcuno scontro» tra le banche e gli imprenditori, quindi ha puntualizzato come sia difficile per i banchieri prestare altro denaro a causa del già «preoccupante» aumento dei crediti deteriorati, appunto le rate che la clientela non riesce a ripagare. In pratica un urlo nella notte, visto che i margini restano ridotti all’osso e che molti istituti hanno salvato i conti solamente con i proventi ricavati dalla compravendita di Bot e Btp. Infine la bordata presa in prestito dalle recenti dichiarazioni del governatore di Bankitalia Ignazio Visco: le banche – ha chiosato Patuelli – se non hanno redditività, cioè non fanno utili, hanno le mani legate sul fronte dei prestiti.
Sileoni ha replicato con durezza, definendo «un piagnisteo continuo» la posizione delle banche. Il loro unico scopo consisterebbe nel «preparare il terreno a ulteriori tagli di personale, attuando una politica della disoccupazione a danno della vera occupazione». In sostanza la possibilità che le banche pretendano dal governo Letta di sfruttare cuscinetti sociali, per scaricare sull’Inps i dipendenti dallo stipendio più pesante in anticipo rispetto a quando sarebbe possibile secondo le regole del Fondo esuberi: l’ammortizzatore sociale del settore, che le stesse banche alimentano ma che ha una durata massima di 60 mesi. Nel mirino restano gli over 50, che già l’Abi di Giuseppe Mussari stava cercando di rottamare, definendo in alcuni documenti interni «insostenibile» il costo del lavoro del settore. Negli ultimi anni è venuto meno il ruolo sociale delle banche – ha rincarato la dose Sileoni – che hanno puntato sempre sul massimo profitto, danneggiando così anche le imprese. Le sofferenze sono figlie di una cattiva qualità del credito, erogata sempre ai soliti noti per mantenere in piedi i poteri politici delle fondazioni, che si autoalimentano da decenni. Non sono, quindi, solo figlie dell’attuale crisi economica».
In buona sostanza, interpretando il non detto, le banche sembrano pensare di avere tutto il diritto di risolvere i problemi di personale, accedendo a strumenti come la cassa integrazione. Che gli istituti associati a Palazzo Altieri contribuiscono ad alimentare ma che, all’opposto delle imprese di Confindustria, al momento non utilizzano.
Da parte sua la Fabi di Sileoni rifiuta invece altri tagli al personale, consapevole che lo scandalo del Monte dei Paschi e il moltiplicarsi delle famiglie soffocate dal credit crunch hanno ulteriormente peggiorato l’immagine e quindi la reputazione delle banche italiane, che è poi la loro principale ricchezza. In sostanza, sostiene la Fabi insieme agli altri principali sindacati del credito, niente tagli al personale e niente fondi pubblici per farli, soprattutto in considerazione dei super stipendi che continuano a percepire presidenti, amministratori delegati e top management delle banche. Perdipiù a una età spesso veneranda (ecco qui chi sono i “bisononni” che comandano banche e fondazioni).
Banchieri e sindacati hanno finito il “Cordiale” in questi sette anni di crisi, d’ora in poi digerire gli stati di crisi sarà ancora più difficile per tutti. Wall & Street