Al momento di andare in stampa, è giunta, a mercati chiusi, la notizia che Fitch (Agenzia di rating internazionale), ha retrocesso di un livello il giudizio sul debito sovrano italiano, portandolo da A – a BBB +. Il ribasso sarebbe dovuto all’incertezza emersa dalle recenti consultazioni politiche definite “inconcludenti”. Motivato o meno, è pur vero che le elezioni non hanno prodotto stabili soluzioni di governo, essenziali per impostare azioni di ripresa, di crescita e sviluppo. L’incertezza, insomma, perdura.
Nel frattempo, la recessione continua, senza sosta e senza sconti, ad erodere l’economia. Lo dimostrano, purtroppo, anche i dati, diffusi dalla Banca d’Italia, relativi al mese di Gennaio sul credito. Da essi si deduce la sensibile riduzione dei prestiti alle aziende ed alle famiglie (calati rispettivamente del -2,8% e del -0,6% annuo) cui si aggiunge, drammatico, l’incremento delle sofferenze (crediti non rimborsati) che segnano un +17,5% annuo.
A gennaio le sofferenze totali del sistema hanno superato la soglia dei 126 miliardi di euro. Le imprese italiane, attraverso Confindustria, hanno immediatamente obiettato che l’Italia si trova in piena emergenza credito a causa delle banche e della loro cautela, estrema e distorsiva, nell’erogazione dei prestiti. In realtà, a segnare questo periodo così profondamente difficile, sono molti i fatti, che occupano quotidianamente la cronaca economica, politica e sociale. L’insofferenza per i costi della politica e l’inefficienza della pubblica amministrazione, gli scandali che hanno investito Gruppi industriali e bancari di prima grandezza, le tensioni occupazionali che, ormai costantemente, investono le aziende ed il nostro settore: un settore apparentemente incapace di proporre una visione strategica a medio periodo, e che ricorre, invece, sempre più spesso, alla leva della riduzione del personale. Di fronte a questo quadro, occorre ragionare con concretezza, riflettendo su come dovrebbe essere un sistema bancario efficiente, soprattutto da come dovrebbe funzionare una banca in un’economia di mercato concepita per il lavoro e non per la speculazione. Non temo affatto di passare per visionario, se provo ad esporre qualche concetto, peraltro già ripreso in precedenti interventi della Fabi. In via principale, le aziende bancarie dovrebbero riscoprire la loro vocazione al servizio.
Il raggiungimento di quest’obiettivo sarà possibile non scrivendo concetti aulici nei Regolamenti e nei Codici interni, ma dando attuazione pratica ad un progetto, che veda le persone agire per servire i clienti, un territorio e le sue attività economiche e sociali, impiegando i capitali raccolti. Se tale vocazione sarà riscoperta, allora avremo davvero una banca che porrà, finalmente, il lavoro e le persone al centro, considerandole un bene prezioso e non un costo da scaricare o un peso da sopportare.
Una banca che consideri persone – quindi soggetti con eguali diritti e doveri, pur con diverse responsabilità – tanto gli impiegati, quanto i quadri, i dirigenti ed il top management. E una banca che rinunci a creare “aree protette” a difesa dei privilegi di vertici e amministratori. Al contrario, gli amministratori dovrebbero essere espressione diretta della comunità, cosa che mal si coniuga con il percepire eccessivi benefici e compensi, sproporzionati al valore della loro attività produttiva.
Non è un’utopia immaginare amministratori che non cerchino la sedia perpetua, ma comprendano, invece, quanto la possibilità di “essere a tempo” rappresenti una garanzia per tutto il sistema e conferisca agli stessi maggiore autorevolezza e credibilità. Non è, perciò, irragionevole pensare ad amministratori scelti in numero ristretto, per capacità e competenza – e non cooptati per fedeltà! – che restino in carica per un massimo di due mandati e che, comunque, si ritirino dopo i 70 anni. Senza eccezioni e nepotismi di sorta. È tempo di organismi societari snelli e lineari, composti da un limitato numero di persone competenti, rappresentative del territorio, che svolgano a tempo definito la loro funzione, rispondendo del proprio operato con trasparenza e senso etico. È questo il presupposto per il buon funzionamento della banca.
Una banca che consideri la modularità delle risorse nel rispetto delle regole contrattuali, e non veda nel precariato e nell’allentamento delle tutele un’opportunità, bensì un limite. Una banca che promuova il lavoro e rispetti i diritti.
Per quanto riguarda la politica creditizia, noi vorremmo una banca capace di distinguere e valutare obiettivamente le differenti situazioni di merito creditizio, di attuare politiche di sostegno e di sviluppo, attraverso valutazioni oggettive, non preferenziali. Allora, non sarà affatto difficile bandire, una volta per tutte, la pretesa di far credito agli “amici di cordata” per assicurarsene il sostegno alla prossima scadenza di mandato o per mascherare ritorni e provvigioni.
L’incremento delle sofferenze può essere fermato soprattutto con lo sviluppo e la ripresa, ma anche recidendo legami impropri fra soggetti in conflitto d’interessi o con legami relazionali che divengono vincoli. In sintesi, le sofferenze non devono più essere figlie dei campanilismi, dietro ai quali si nascondono interessi di famiglie e di cordate legate, a doppio filo, alle direzioni delle banche.
Nella nostra visione, non scorgiamo affatto spazio per i furbi o gli opportunisti, per manager mascherati da consulenti, per promotori di interessi propri, per amministratori di mestiere, ma soltanto per persone che esprimono competenze qualificate. Persone che facciano del lavoro e del servizio alla comunità economica un alto ideale da perseguire. Vedremo se la stagione dei rinnovi assembleari, nelle banche popolari italiane, riuscirà a recepire, almeno in parte, questa nostra impostazione generale.
Di certo, noi non mancheremo di perseguirla tenacemente, perché essa corrisponde non già ad interessi di parte, ma al bene dei lavoratori e dell’economia reale: un’economia che ponga al centro di tutto le persone ed il lavoro.