di Emilio Garofalo
Vivono nella regione amazzonica dell’Ecuador, nella provincia di Bobonaza. Sono circa 2mila. Guidati da un leader di popolo, che si chiama Jose Gualinga, i Sarayaku conducono l’esistenza nel pieno rispetto della libertà personale e della armonia sociale. Tutelano le ricchezze del loro territorio, un piccolo angolo della giungla orientale. Un paesaggio piatto, lussureggiante, dove grandi fiumi tagliano verdi pianure. E, in piena armonia biologica, convivono animali feroci e creature comuni. I Sarayaku salvaguardano se stessi, restando legati alle loro tradizioni, al loro stile di vita, non ponendo pure ostacoli alla diffusione di nuove culture ma tramandando, nel tempo, la filosofia storica della loro gente, con l’obiettivo di tutelarne l’identità. Vivono in pace.
Così, da sempre, è stato. Sino a dieci anni fa. Nel 2002, infatti, la CGC, compagnia petrolifera argentina, impiantò sul sottosuolo di questa pacifica tribù massicce dosi di esplosivo, con l’intento di valutare l’estensione dei giacimenti petroliferi (che, con quelli dell’oro, rendono la provincia ecuadoregna uno dei territori di “caccia capitalistica” più ambiti dai principali investitori mondiali). In palese violazione della normativa internazionale, secondo cui sarebbe stato necessario non solo il coinvolgimento ma anche l’accordo con i nativi, il governo non soltanto ignorò le posizioni dei Sarayaku, ma, addirittura, autorizzò le esplorazioni sotterranee, concedendone i relativi permessi. La CGC, a fronte dell’intervento massiccio e delle perforazioni del sottosuolo, avanzò persino una misera e sbeffeggiante “offerta” di 15 dollari a persona, a titolo di risarcimento preventivo di eventuali danni arrecati alla popolazione.
In seguito, le prime a denunciare l’illecito sfruttamento dei giacimenti amazzonici sono state le donne Sarayaku. Inserendosi in una ricca tradizione di “resistenza popolare” tutta al femminile (prima di loro, le Sucumbios avevano lottato contro l’industria petrolifera americana Texaco), una delegazione di giovani donne ha dato l’avvio a una incisiva campagna di protesta. L’obiettivo è quello di denunciare le irregolarità di una procedura che, presto, potrebbe causare enormi danni al territorio: ferite sul terreno dell’Amazzonia, sostanze tossiche riversate nelle falde, avvelenamento progressivo e irreversibile dell’ambiente.
Tra le attiviste c’è Noemi Gualinga, una donna minuta, occhi neri dipinti e lunghi capelli corvini, che ha raccontato ai media le lungaggini processuali, i triboli di una causa intentata presso la Corte interamericana dei diritti umani di San Josè, la cui sentenza è attesa in questi giorni. I giudici dovranno stabilire eventuali responsabilità delle autorità governative per la mancata consultazione della popolazione per le concessioni ottenute dalla CGC. Inoltre, se l’iter giudiziario dovesse dare ragione ai Sarayaku, saranno scongiurati i rischi di un disastro ambientale.
Ma l’obiettivo di Noemi e delle sue compagne è anche quello di tutelare il loro diritto di coinvolgimento nelle procedure di concessione dei permessi di sfruttamento territoriale, in particolare in tutti quei casi in cui questo possa causare stravolgimenti radicali dell’ecosistema. La donna, nel raccontare le vicissitudini giudiziarie, ha anche denunciato di aver ricevuto pressioni e minacce di morte, a seguito delle quali è stata costretta a riparare in Svezia. Un esilio forzato, per difendere anche sua figlia Nina, che dalla madre ha ereditato lo sguardo e il colore scuro delle pelle e dei lunghi capelli.
La difficoltà di contrastare nemici subdoli -sviluppo deregolato e arricchimento economico- e il timore di ripercussioni non sono bastati a demotivare le donne, che non si sono tirate indietro. E, da sole, continuano a lottare ancora oggi, dopo dieci lunghi anni, a testa alta, contro governo e multinazionali, per riportare la pace a l’armonia lì dove queste meritano di regnare: in un piccolo angolo della foresta amazzonica, la loro terra.