Palazzo Altieri sa che l’abbandono all’intesa del 2009 non sarà facile
Se c’è un fronte sul quale la battaglia dell’Abi è dura e le prospettive di vittoria finale sono incerte è il rinnovo del contratto nazionale di lavoro.
Ne sono consci sia il Comitato affari sindacali e del lavoro (Casl) dell’Associazione bancaria italiana, sia l’Esecutivo di Palazzo Altieri.La sfida è epocale per le banche che ritengono la riduzione strutturale del lavoro del lavoro, almeno per i prossimi due/tre anni per i quali si prevede bassa crescita, l’unica leva per aumentare rapidamente la redditività. Dunque per saziare la fame di dividendi che attanaglia gli azionisti, soprattutto le Fondazioni, specie per i gruppi (Intesa Sanpaolo, Popolare di Milano, Ubi Banca, Mps solo tra i maggiori) alle prese con gli aumenti di capitale necessari per adeguare le strutture patrimoniali ai requisiti di Basilea 3. Fatte salve improbabili retromarce, lo scontro sarà durissimo.
I sindacati del “primo tavolo” (Dircredito, Fabi, Fiba/Cisl, Fisac/Cgil, Sinfub, Ugl Credito e Uilca) il 7 aprile hanno presentato la piattaforma che dovrebbe essere trasmessa all’Abi intorno alla metà di luglio. La richiesta economica dei sindacati per il triennio 2011- 13 è di un aumento medio di 205 euro mensili (pari al 7,29%), con un ulteriore aumento dell’1% attraverso la revisione della scala parametrale che porterebbe l’incremento medio finale a 245 euro mensili. Lo stesso giorno, però, l’Abi disdettava l’accesso volontario al Fondo di solidarietà di settore.
Il contrasto è frontale: secondo l’Esecutivo dell’Associazione bancaria, il prossimo rinnovo contrattuale dovrà vedere un “salto di qualità” innovativo perché per la prima volta gli incrementi economici dovranno essere agganciati non più, come in passato, a “parametri oggettivi” ma a “reali incrementi di produttività”. Secondo le banche però ciò non significa rinnovare il contratto a costo zero, ma agganciare gli aumenti retributivi “a effettivi miglioramenti di produttività e efficienza”. Secondo l’Abi è un progresso culturale di enorme portata, sul quale l’Abi rivendica una posizione di leader e apripista anche nei confronti delle altre organizzazioni imprenditoriali.
Le banche sanno bene però che l’obiettivo non sarà facile per una serie di motivi ben chiari. C’è la questione dell’unicità della proposta, visto che i contratti nazionali degli altri settori rinnovati dal 2009 – anno della firma dell’accordo interconfederale – hanno sempre fatto riferimento all’indice Ipca previsto dall’accordo. L’Esecutivo bancario sa bene, quindi, che “la posizione dell’Abi risulta isolata nel panorama delle relazioni industriali”.
Inoltre la mancata applicazione dell’accordo del 22 gennaio 2009 sarà giudicata negativamente dal governo che di quell’intesa fu promotore. La mossa dell’Abi è di quelle “eretiche”, tali da non permettere ripensamenti da parte della base. Se l’associazione non sarà granitica nel perseguirla, sarebbe pregiudicato l’intero percorso negoziale di rinnovo del contratto.
Ecco perché Palazzo Altieri ritiene necessarie “le forme più idonee di comunicazione” per far arrivare all’opinione pubblica messaggi chiari, convincenti e soprattutto coerenti sulla linea politica e comportamentale del settore. Ma i sindacati, c’è da scommettere, non resteranno a guardare.
(PLUS, sabato 4 giugno 2011 – di Nicola Borzi)