Bancari sbancati. L’Abi taglia il 25% dei dipendenti. Negli uffici le aziende di credito si preparano a ridurre migliaia di posti e a cambiare le regole del gioco. E se lo sportello diventasse come Pomigliano?
Uno su quattro non ce la fa: sono 80 su 308 i dipendenti dell’Abi che dovranno fare le valigie a causa del taglio di organico deciso dall’Associazione bancaria italiana per abbattere i costi di struttura. Se il buongiorno si vede dal mattino, è un brutto segnale in vista delle trattative per il rinnovo del contratto di categoria in scadenza il prossimo 31 dicembre 2010.
Anche e soprattutto alla luce del minacciato scioglimento del Fondo di sostegno al reddito: l’ammortizzatore sociale del sistema creditizio che in dieci anni ha favorito il prepensionamento di 34 mila lavoratori, messo in discussione dall’Abi perché troppo oneroso e non più adeguato alle esigenze del settore. Reazione sdegnata delle rappresentanze sindacali della categoria, toni duri, clima teso: la vigilia di un rinnovo contrattuale che molti temono richiederà nuovi sacrifici a una categoria che ha già pagato un alto prezzo all’occupazione, si è fatta incandescente. Racconta l’amministratore di una banca che vuole restare dietro le quinte: «In una cornice di modesta crescita, dopo una recessione severa, di tassi di interesse bassi, di elevato costo sul rischio di credito, di proliferazione di provvedimenti normativi avversi, di concorrenza elevata anche da parte di banche straniere salvate dai loro Stati, è chiaro che il costo del personale sarà oggetto della massima attenzione». Esuberi? «Impossibile dare cifre. Al massimo saranno poche migliaia. Ma il momento non è facile e tutto dipenderà dagli elementi di flessibilità che riusciremo a ottenere dal rinnovo di un contratto che dovrà essere a costo zero », è questo l’auspicio che arriva dalla base delle banche. E con il quale deve confrontarsi Francesco Micheli, senior advisor di Corrado Passera, (il ceo di Intesa Sanpaolo con cui ha lavorato fianco a fianco fin dai tempi delle Poste) e soprattutto l’uomo cui l’Abi ha affidato il comando delle trattative.Qual’è la criticità del nuovo contratto? «Sembra di essere alla fine degli anni Novanta, quando il mercato era alle prese con un grosso ripensamento, con problemi dimensionali, con la cosiddetta concorrenza straniera, con la competizione in campo aperto, dopo un lungo regime di monopolio.
Fu il momento in cui partirono le ristrutturazioni e la redditività del sistema all’epoca oscillava tra 1,8%-2%. Ebbene, oggi siamo tornati a quei livelli, a un Roe (Return on equity, ndr) intorno 2,3% – 2,4%. Con una differenza, però: mentre allora, pur di fronte a grandi problemi, c’erano prospettive di un sistema economico che avrebbe tirato, come in effetti è accaduto, oggi sappiamo che nei prossimi tre anni non ci sarà crescita». Dunque uno scenario difficilissimo, secondo il manager, che ha al suo attivo ristrutturazioni pesanti, come quelle alla Banca di Roma (la prima ex bin che cambiava faccia), alle Poste, all’Alitalia, prima di approdare in Intesa Sanpaolo. Scenario ni sindacali a tarallucci e vino. «Grazie alla concertazione tra le parti sociali, il sistema bancario italiano è stato in grado di realizzare un riposizionamento strategico e competitivo di alto profilo, reggendo meglio di tutti alla crisi europea» sostiene Giuseppe Gallo della Fiba Cisl, temendo una rottura «di questo equilibrio virtuoso tra vincoli competitivi e coesione sociale», per colpa di «comportamenti regressivi che riportano indietro la storia».
Contesta un confronto basato unicamente sui numeri e difende a spada tratta il fondo «che ha permesso un grande ricambio generazionale» Lando Maria Sileoni, segretario generale della Fabi, il maggiore sindacato della categoria. Che punta piuttosto su una contrattazione a tutto campo, nella quale trova ospitalità anche il tema caro al vertice dell’Abi di imprenditori e lavoratori uniti nel rischio di impresa. «Sono posizioni forti e innovative che condividiamo», sottolinea Sileoni. «Il fatto è che raramente fino a oggi, ci siamo incrociati con interlocutori che abbiano manifestato la concreta volontà di voltare pagina».
Bacchetta «i comportamenti furbeschi» di quelle banche che richiedono aperture di procedure che non poggiano su piani industriali «solo con l’intento di eliminare i lavoratori», anche Massimo Masi, segretario generale della Uilca: «Vogliamo ridisegnare una banca meno legata alla finanza, con più eticità e minori pressioni sulle vendite di prodotti», aggiunge. «E ci preoccupa il problema fondo in vista dei piani industriali dei maggiori gruppi attesi nella prossima primavera: è il caso che l’Abi abbandoni posizioni preconcette e riapra il tavolo delle trattative per discutere in modo serio e responsabile».
«Sta per scadere un contratto che va rinnovato con l’obiettivo di difendere il salario reale dall’inflazione reale e di consolidare l’occupazione nel prossimo triennio, con un piano giovani che dia stabilità del lavoro e prospettive alle nuove generazioni», aggiunge Agostino Megale, a capo della Fisac Cgil il cui ufficio studio, ha messo a fuoco, con la collaborazione di Bankitalia e Istat, un’analisi significativa sul costo del lavoro esaminato in un arco temporale molto ampio, dal 1993 al 2009. Che cosa emerge? «Nel settore creditizio la dinamica del costo di lavoro per unità di prodotto è stata pressocché nulla, per il combinato disposto della maggiore espansione della produttività e della minore crescita dei redditi da lavoro dipendente», dice Megale. «E il divario rispetto ad altri settori è stato molto netto nel triennio 2007-2009».
Un fatto è certo: un tempo il lavoro in banca era sinonimo di sicurezza, soldi e prestigio sociale. Forse era troppo e non meritato fino in fondo. Ma nel frattempo reddito e certezze si sono molto asciugati e la professione ha cominciato a pagare sull’altare modesta capacità a confrontarsi con le nuove esigenze del mercato, anche negli anni d’oro del sistema. E gioca forse oggi la sua partita decisiva.
(Il Mondo, 10 Dicembre 2010 – Anna Di Martino)