«La presenza della Libia in Unicredit risponde solo a una logica di investimento, quindi non ha nessuna influenza nella gestione. Gheddafi, peraltro, ha avuto per molto tempo il 5% di Fiat senza interferire nel destino del gruppo né sulle sue politiche del personale». Lando Sileoni, che guida la Fabi, il più rappresentativo dei sindacati bancari, non condivide l’allarme della Lega per l’accresciuto peso della finanza araba in Piazza Cordusio. Il problema, al di là della quota in mano a Tripoli su cui è scesa in campo Consob per chiarire la regolarità dei diritti di voto, sono invece i 4.700 esuberi annunciati dal gruppo di Alessandro Profumo. Le trattative inizieranno il 10 settembre e il sindaco di Verona, Flavio Tosi, ha adombrato il rischio che avere gli emissari del Colonnello nel cda di Unicredit comporti il rischio di misure «più ciniche» sul territorio: «Non accetteremo uscite secche di personale senza definire contestualmente azioni positive, compensative sul versante occupazionale, specie per i giovani», avverte Sileoni.
Il Fondo esuberi nazionale è ancora capiente?
«Le forze sindacali hanno già chiesto al governo di riaprire i termini del Fondo di solidarietà per gli esuberi. Esistono, però, altri strumenti attivabili negozialmente, come pensionamenti incentivati, su base volontaria. Come è stato fatto in Ubi».
La crisi, però, ha imposto un taglio ai costi di bilancio…
«A mio parere, la crisi non impone tagli ai costi di bilancio, ma una riorganizzazione seria, di cui Unicredit deve documentare gli effetti specifici area per area, settore per settore. Tosi ha ragione a chiedere di valutare gli esuberi nel piano industriale. Non possiamo accettare numeri da illusionisti per lasciare mano libera dove meglio conviene o aggrada all’azienda».
Profumo guida una banca europea, e ha modo di spostare parte delle attività perlomeno di back office in Paesi dell’Est, dove il costo del lavoro è inferiore. Che cosa dovrebbe fare l’Italia per essere più competitiva?
«La delocalizzazione permanente non è una strategia, ma solo una tattica di corto respiro perché porta a snaturare l’impresa. Il confronto col mercato europeo non è uno spot pubblicitario, ma deve trovare coerenza in tutto, anche nel sistema operativo. La competitività deve venire dall’equilibrio complessivo di costi e ricavi, eliminando tutto ciò che frena la crescita, a iniziare da passaggi gerarchici inutili».
Come sta andando la Banca Unica dal punto di vista del personale?
«Potrei rispondere che oggi si cerca di fare quello che si è già disfatto ieri, oppure che si riunifica ciò che prima si è segmentato e frazionato, seguendo le indicazioni delle firme della così detta consulenza dorata».
La Lega riuscirà nella crociata volta ad avere maggiore peso nelle banche del Nord? Come cambieranno gli equilibri nelle grandi Fondazioni?
«Chiunque conquista consenso politico si propone di mantenerlo e di accrescerlo, quindi utilizza strumenti che lo possano allargare lecitamente. Il cambiamento va visto non come una colonizzazione, ma come conseguenza politica, nel caso in cui i cittadini si sentano meglio rappresentati da alcune forze o partiti».
La finanza araba detiene complessivamente il 10% di Unicredit. Il modello “public company” perseguito da Profumo sarà messo in discussione, o è un tentativo di mettere a tacere le Fondazioni più irrequiete come Verona?
«Unicredit resta un’impresa nazionale, anzi ritengo che le radici italiane siano un bene assoluto. La partecipazione di soci esteri si pone in un quadro di garanzie e tutele che sono proprie del Paese d’origine. La nostra preoccupazione è sulla strategia, non sulle quote detenute dalle Fondazioni».
La Fiat di Marchionne sta tentando di superare il contratto nazionale dei metalmeccanici e Confindustria la appoggia con l’intento di estenderne la portata all’intero mondo industriale. É una strada percorribile anche nel settore bancario? I sindacati sarebbero pronti a firmare un patto per la produttività?
«Marchionne vuole fare scuola, del resto la Fiat ha sempre avuto un ruolo nelle relazioni industriali, ruolo non sempre illuminato. Oggi, purtroppo, vi sono epigoni pronti a imitare, ma senza capire. Il vero tema è realizzare ciò che serve al nostro settore senza ricalcare modelli che nulla hanno a che fare con esso. Non credo che una corsa al ribasso dei diritti dei lavoratori sia funzionale ai bisogni delle banche. Penso, invece, che l’economia abbia bisogno di non deprimere i consumi e che quindi il potere d’acquisto e il reddito disponibile dei lavoratori, a partire dal nostro prossimo contratto, vada incrementato e salvaguardato. La stessa piaga della precarizzazione del lavoro va contrastata e noi intendiamo farlo già da questa difficile vertenza in Unicredit».
(Il Giornale, 02 Settembre 2010 – Massimo Restelli)